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Calcio e vit D in discussione per prevenzione fratture
Inserito il 29 aprile 2005 da admin. - reumatologia - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

Secondo uno studio la supplementazione con calcio e/o vitamina D in prevenzione secondaria non ridurrebbe la frequenza di nuove fratture. Un ulteriore studio inglese conclude che anche in prevenzione primaria calcio e vitamina D sarebbero inutili a prevenire le fratture.

Nel primo studio sono stati reclutati presso 21 ospedali del regno Unito 5292 pazienti, che avevano già subito una frattura correlata all'osteoporosi, di età oltre 70 anni. I pazienti sono stati suddivisi in 4 gruppi. Confezionando le pillole in modo da preservare la ciecità ad un primo gruppo sono stati somministati 1 gr di calcio e 800 UI di vit D3, ad un secondo gruppo solo calcio, al terzo solo vit. D3 ed infine al quarto placebo. L'end point primario era costituito da qualsiasi nuova frattura conseguente a traumi non efficienti o atraumatica, escluse quelle del cranio e della faccia. Il follow-up è stato protratto per un periodo variabile da 24 a 62 mesi.
Il 13 percento dei pazienti ha presentato una nuova frattura. Non sono emerse differenze significative tra i tassi di nuove fratture riscontrate nei 4 gruppi anche dopo aver corretto per vari fattori confondenti e non sono emerse differenze nemmeno per quanto attiene alla qualità di vita.
Gli Autori concludono che in base ai loro risultati la supplementazione con calcio e/o vit D non protegge dall'insorgenza di nuove fratture. Il messaggio è dunque che questo tipo di trattamento è insufficiente.

Fonte: Lancet early on line publication 28 Aprile 2005

Commento di Luca Puccetti

Questo più che ad uno studio assomiglia ad un gioco. I livelli di vitamina D sono stati misurati in una percentuale infima di casi (1,1%) e quindi nessun dato sensato può essere ricavato sullo stato vitaminico dei soggetti. Lo studio è stato realizzato mediante un questionario mandato per posta ogni 4 mesi a pazienti di 70 o più anni. Questi pazienti hanno dovuto rispondere ogni 4 mesi ad un questionario con varie domande tra cui se erano caduti negli ultimi sette giorni, quanto erano esposti al sole, scale sulla quantità di calcio assunta con la dieta, sulla qualità di vita, il tutto sempre da ritornare per posta, senza nessun controllo medico. Inoltre la dispensazione dei farmaci avveniva per posta, ovviamente dopo uno studio di fattibilità in merito (poteva mancare?). Inoltre le fratture vertebrali, come si sa, sono facilmente diagnosticabili, specialmente se se ne chiede notizia ad amici e parenti dei pazienti, magari per telefono. Che dire poi della permanenza in terapia che, se si contano anche i dati dei pazienti che non avevano restituito i questionari sulla compliance dopo 2 anni scendono al 45 %. Se volessimo continuare dovremmo leggere con attenzione la sezione materiali e metodi in cui gli Autori affermano di avere escluso i pazienti che nei 5 anni precedenti l'arruolamento avessero assunto fluoruri, calcitonina, vitamina D, tibolone, estroprogestinici, SERM. Basterebbe questa affermazione per suscitare serissimi dubbi sullo studio data la difficoltà di poter escludere veramente l'assunzione di tali presidi in pazienti anziani con limitate capacità mnemoniche che dovrebbero ricordare assunzioni di farmaci antecedenti di 5 anni. Occorre poi ricordare che tra le varie fratture quelle vertebrali sono le più dipendenti dalle deformità delle vertebre viciniori più che dalla densità ossea. Inoltre le fratture vertebrali sono spesso asintomatiche e quindi non rilevabili senza un esame radiologico e dunque l'unico ulteriore dato indiretto potrebbe essere l'altezza , ma di questo dato non è stato descritto dagli Autori. Il dato più interessante è quello riguardante le fratture di femore che non risultano influenzate dal calcio e dalla vitamina D. Questi risultati sono assolutamente in contrasto con quelli dello studio di Chapuy e coll. (NEJM 1992; 327:1627-1642) e di Dawson-Hughes (NEJM 1997; 337:670-676) che erano studi di prevenzione primaria. Per spiegare le differenze si fa riferimento all'età dei pazienti, più giovani, alla loro maggiore mobilità ed ai possibili ruoli diversi dell'ipovitaminosi D e dell'iperparatiroidismo. Come già detto, in realtà la percentuale di casi in cui è stato valutato l'assetto della vitamina D in questo studio è ancora più piccola di quella, già esigua, dello studio di Chapuy, pertanto non si può esprimere alcun giudizio su questo aspetto. Insomma proprio non si capisce che cosa si sia misurato, per quanto tempo ed in quale dose effettivamente siano stati assunti i farmaci. Nessuna conclusione può essere tratta da questo studio che rappresenta un ottimo esempio del pericolo di studi discutibili, che necessitano di reclutamenti faraonici perchè mirano a dimostrare differenze su eventi rari e che soffrono di tutti gli innumerevoli problemi legati all'impossibilità di controllare davvero l'applicazione dell'intervento ed i suoi effetti. L'amplificazione mediatica dei risultati dello studio rappresenta un esempio dei pericoli correlati ai messaggi lanciati sulla rete da agenzie e da giornalisti che non hanno la capacità e la voglia di verificare e fare le pulci alle cosiddette notizie, anche se sono sparate su The Lancet!

Il secondo studio ha preso in considerazione 3314 donne con fattori di rischio per fratture da osteoporosi costituiti da: pregresse fratture (dunque lo studio non è strettamente di prevenzione primaria), fumo, peso inferiore a 58 Kg, familiarità per frattura di femore o autovalutazione di una cattiva condizione di salute. L'intervento prevedeva la supplementazione con vitamina D3 alla dose di 800 UI/die e con 1 grammo/die di calcio carbonato e la distribuzione di un libretto informativo su come evitare le cadute oppure solo il libretto informativo. Le donne sono state allocate ai due interventi dapprima con un rapporto 2:1 in favore del placebo, poi con un rapporto 3:2 e solo verso la fine dell'arruolamento ad un rapporto 1:1. L'end point principale era costituito da qualsiasi nuova frattura clinicamente rilevabile (tranne quelle delle dita, del cranio, del volto e delle coste), obiettivi secondari erano la frequenza delle cadute e la qualità di vita.
Dopo 25 mesi sono state registrate 149 fratture, un numero molto più basso rispetto a quello atteso (circa il 50% ripetto all'atteso). Secondo gli autori sia il numero di fratture che il tempo medio di comparsa della prima frattura non differiscono significativamente tra i due gruppi. Inoltre il trattamento con calcio e vitamina D non ridurrebbe la propensione alle cadute. Gli Autori concludono che calcio e vitamina D non sono sufficienti a prevenire le fratture correlate all'osteoporosi in donne con fattori di rischio specifico.

Fonte: BMJ 2005;330:1003

Commento di Luca Puccetti

Anche questo studio presenta una serie di problemi. Prima di tutto comprende solo donne, inoltre il gruppo di controllo era in aperto. Ma il bias maggiore è correlato con le modalità di arruolamento. Esiste una dicotomia inspiegabile tra l'andamento delle fratture dell'anca nel gruppo randomizzato in modo ineguale (2:1 o 3:2) ed in quello randomizzato in rapporto 1:1. Consideriamo che il calcolo del campione è stato effettuato, in base alla precedente letteratura, stimando una riduzione del rischio relativo per l'effetto del trattamento del 34 %, ipotizzando una frequenza di fratture del 10% nel gruppo non trattato e ponendo la potenza del test al'80% una specificità a due code del 5% e un tasso di drop-out previsto del 20%. Ebbene nel gruppo randomizzato in modo ineguale si sono verificate 3 fratture di femore su 714 donne nel gruppo attivo e 15 su 391. Nel gruppo allocato 1:1 (che ricordiamo sono state le donne arruolate per ultime) si sono verificate 5 fratture su 607 donne nel gruppo attivo e 2 su 602 nel gruppo di controllo. E' abbastanza evidente che le donne arruolate per ultime erano una popolazione verosimilmente diversa da quelle arruolate per prime. Inoltre l'esame dell'introito calcico dimostrava un'assunzione giornaliera molto alta di 1000 mg/die. Questo non è sorprendente dal momento che in UK molti alimenti sono supplemenati con calcio. la maggior parte degli studi fatti su altre popolazioni attesta un introito giornaliero medio di calcio di 500-600 mg/die. Dunque lo studio avrebbe fatto vergognare Monsieur de Lapalisse in quanto dimostrerebbe la non utilità della supplementazione con calcio e vitamina D in donne assumenti una sufficente razione alimentare di calcio. Paradossalmente sarebbe stato interessante se lo studio avesse fornito dati su eventuali ipercalcemie o ipecalciurie. Invece lo studio non fornisce alcuna seria informazione sullo stato del metabolismo fosfocalcico delle donne arruolate. Anche questo studio che ha tutti i problemi metodologici e concettuali sopracitati è in controtendenza rispetto a precedenti studi. Oltre ai già citati studi di Chapuy e Dawson-Hughes, ricercatori dell'Università di Cambridge hanno pubblicato uno studio (BMJ 2003;326:469) su 2686 soggetti ultrasessantacinquenni (la maggior parte dei quali era di sesso maschile) in cui è emerso che la somministrazione per os di 100.000 UI di vitamina D3 ogni 4 mesi per 5 anni riduce del 22 percento l'incidenza di fratture ed addirittura nello studio è stata sfiorata la significatività statistica per la riduzione della mortalità totale RR 0.88 ( 95% IC 0.74 - 1.06). La frequenza bassa di eventi, (sintomo di un probabile fattore confondente) la variazione dell'allocamento in corso d'opera e la non cecità dello studio costuiscono dei seri bias che ne inficiano i risultati e la generabilizzabilità.

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