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Osservazioni sul documento sulle cure in età gestazionali bassissime
Inserito il 14 giugno 2006 da admin. - professione - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

Le osservazioni di una neonatologa e bioeticista sulle Raccomandazioni per le cure perinatali nelle età gestazionali estremamente basse.

Duecento neonatologi hanno firmato un documento a difesa della tutela della vita dei nati prematuri in risposta alle “Raccomandazioni per le cure perinatali nelle età gestazionali estremamente basse” presentate dall’Ordine dei Medici della Toscana e da altre Società scientifiche.
In queste raccomandazioni si metteva in discussione l’opportunità della rianimazione e delle cure intensive per questi piccoli pazienti. E' opportuno far sopravvivere i prematuri e quale giudizio dare sui consigli delle linee guida?
Per rispondere a questa domanda non si può non partire dai dati scientifici e, anche se la letteratura riporta percentuali molto variabili, bisogna sottolineare che è descritta una sopravvivenza anche del 50% per i nati sotto le 23 settimane. Non è un caso che le linee guida esistenti (J Child Neurol 2004) indichino come limite inferiore di sopravvivenza quello delle 22 settimane (al di sotto del quale sono proposte solo cure “minime”), sottolineando peraltro come, data la possibilità di errore nella datazione della gravidanza, è opportuno valutare sempre il singolo neonato ed intervenire nei casi dubbi (anche perché è dimostrato che la prognosi è nettamente migliore quando si interviene tempestivamente. Pediatrics 2004).
Riguardo a questo aspetto della “prognosi a distanza”, cioè della possibilità che si manifestino deficit di vario tipo (la “qualità della vita”), bisogna sottolineare che essa è molto diversificata a seconda dell’età gestionale, che non è prevedibile alla nascita e che i dati che abbiamo ora si riferiscono a bambini nati 6-7 anni fa (ed progressi compiuti in questi anni nell’assistenza ci auguriamo che portino anche ad una riduzione degli esiti a distanza). Di fronte ai neonati sopravvissuti c’è chi dice: “Sono casi fortunati”! Anche se così fosse, non mi sembra che questo possa modificare la valutazione sul nostro comportamento, perché l’incertezza prognostica dovrebbe spingerci ad un atteggiamento cautelativo ed a stare quindi dalla parte della vita.
Le linee guida, i protocolli o le raccomandazioni sono “strumenti” e come tali il loro valore dipende dall’uso che ne viene fatto: possono essere utili quando obbligano noi operatori sanitari a riflettere sulla nostra pratica clinica, a verificare i dati della letteratura diventando quindi anche un’occasione preziosa per il nostro aggiornamento professionale; possono però diventare espressione di una certa “deriva scientista” cioè del tentativo di dare risposte tecniche a tutti i problemi dell’esistenza nell’illusione di potere tenere tutto sotto controllo. Dati e statistiche ci possono fornire un orizzonte di riferimento ma non ci possono dire come ci dobbiamo comportare di fronte al singolo paziente, soprattutto in una realtà, come quella della Neonatologia, in cui ci confrontiamo quotidianamente con la estrema, meravigliosa irripetibilità di ciascuno dei nostri piccoli neonati. Quali conseguenze ci potrebbero essere alzando così tanto il limite di sopravvivenza per pretermine?
La prima conseguenza più immediata sarebbe quella di rendere molto difficile l’operato dei medici (ginecologi e neonatologi) in caso di nascite alla 23° o 24° settimana.
Nelle Raccomandazioni si dice che “tra le 22 e le 24 settimane, il trasferimento in utero presso un centro di terzo livello, “può essere appropriato”. Tuttavia il trasferimento in utero è una delle procedure fondamentali per migliorare la prognosi (sia in termini di sopravvivenza che di handicap) per questi prematuri. Inoltre viene definito “non giustificato” il ricorso ad un Taglio Cesareo, ma il parto per via vaginale espone questi prematuri a grossissimi rischi. Inoltre non si può ignorare il fatto che con sempre maggior frequanza la professione medica è esposta al rischio di subire provvedimenti legali ed un documento del genere, approvato da alcune società scientifiche, potrebbe ridurre ulteriormente la serenità di giudizio del neonatologo. Un’altra possibile conseguenza alla quale forse non si è data molta importanza è che la Legge 194 sottolinea che, in caso di possibilità di vita autonoma del feto, l’aborto può essere motivato solo dall’imminente pericolo di vita della madre tanto che in questi casi, al nascituro deve essere garantita tutta l’assistenza possibile. L' innalzare così come fatto nel documento il “limite di vitalità” potrebbe finire per giustificare interruzioni di gravidanza tardive (cioè oltre la 23° settimana).
Si sente parlare sempre di più del diritto alla salute e del diritto di un figlio a nascere sano. Esiste un diritto alla cura, ma non può esistere un diritto alla salute se non come aspirazione legittima in ciascuno di noi. Lo stesso vale anche per il neonati: non appare allora condivisibile quello che, secondo quanto riportato dalla stampa, avrebbe detto il Dott. Mario Barni (Vicepresidente del CNB) e cioè che “un figlio ha diritto a nascere sano”! Sembra più giusto invece affermare che ciascun “figlio ha il diritto di essere amato” anche quando, per situazioni le più disparate, sano non è!
Se si perde di vista questo orizzonte come ci dobbiamo comportare quando un bambino nasce a termine, ma con una grave sofferenza? Dobbiamo lasciarlo morire? Ma se ci consideriamo membri di una società che si definisce civile abbiamo il dovere di aiutare le persone più svantaggiate evitando il dramma della solitudine che troppo spesso attanaglia chi vive situazioni di disagio.
Troppo spesso si corre il rischio di dimenticarsi che davanti ad un neonato, anche se molto prematuro, siamo di fronte ad una persona che interpella la nostra professionalità, ma soprattutto la nostra umanità. Esiste il rischio che la “qualità della vita” (ma chi decide quale sia il livello giusto?) sia la “lente” attraverso la quale guardiamo questi piccoli pazienti diventando di conseguenza dei “giudici” anziché dei medici! L’accanimento terapeutico è una sconfitta della medicina e del medico in una delle fasi più delicate dell’esistenza che è quella della morte. Esso indica spesso la nostra incapacità ad accettare la morte ed a volte anche il rifiuto di ammettere che non siamo onnipotenti nonostante i mezzi che abbiamo a disposizione! Non dobbiamo fare tutto quello che è tecnicamente possibile, ma solo quello che ci permette di agire pensando al bene del paziente: forse è giunto il momento di migliorare la nostra professionalità riscoprendo la vera “vocazione” del medico. Secondo Jaspers la medicina non è arte, non è scienza ma è relazione! Con quest’ottica saremo allora capaci di essere dei medici consapevoli di non potere sempre guarire, ma di dovere sempre accompagnare le persone che si sono affidate alle nostre cure.
E’ però pericoloso dire, così come è scritto nelle Raccomandazioni, che “le cure al neonato di età gestazionale inferiore alle 25 settimane assumono il carattere di cure straordinarie”, perché questo fa nascere il sospetto che si tratti sempre di un accanimento terapeutico. In realtà viene da più parti riconosciuto che il giudizio di “straordinarietà” può essere espresso solo dal paziente (e quindi nel nostro caso il neonato), mentre noi medici possiamo e dobbiamo dare un giudizio di proporzionalità che significa valutare se quello che stiamo facendo è adeguato a raggiungere un obiettivo di salute per in nostro paziente. Questo giudizio non potrà mai essere formulato una volta per tutte basandosi sulla sola età gestazionale, ma andrà sempre espresso davanti ad ogni singolo bambino nella consapevolezza che quello che facciamo può essere “adeguato” un giorno e non esserlo più il giorno successivo vista la grande inabilità che caratterizza i neonati.
Certamente occorre aumentare l’attenzione alla terapia del dolore. Nelle TIN (secondo gli ultimi dati riportati al Congresso di Montecatini della SIN Maggio 2006, non più del 50% dei Centri sono attenti a questo aspetto) perché questa diventa un elemento fondamentale per evitare inutili sofferenze ai neonati e non cadere quindi nel concetto di straordinarietà. I prematuri non comunicano con verbalmente, ma hanno un linguaggio non verbale che deve esseer considerato nella scelta delle procedure.
Dov’è segnato il confine oltre il quale si può parlare di eutanasia?.
Il confine lo possiamo trovare nel significato delle nostre azioni che, se analizzate con estrema sincerità, senza ipocrisia o buonismo, saranno in grado di darci delle risposte chiare: quale fine vogliamo raggiungere con quello che decidiamo di fare?
Se la nostra azione ha come fine fare morire un neonato (anche se mossi da buone intenzioni come quella di non dare ad una famiglia un bambino con handicap) quello che commettiamo è un atto eutanasico. Se siamo consapevoli che quello che stiamo facendo non ha alcuna possibilità di aiutare il nostro piccolo paziente e ne prolunga solo la sofferenza, siamo di fronte ad un accanimento terapeutico. Saremo dei veri medici quando, facendo quanto ci è possibile per il bene del neonato, saremo capaci di curare laddove è possibile e di comprendere quando ciò non è più possibile riuscendo quindi ad identificare quali trattamenti sono assolutamente inutili o addirittura dannosi (potendoli, anzi dovendoli allora sospendere serenamente) e quali, pur richiedendo l’impiego di macchinari sofisticati, costituiscono una forma di accompagnamento al piccolo bambino verso un exitus inevitabile. La morte potrà allora essere accettata come un evento naturale sia da noi che dai genitori e potremo dimostrare la nostra professionalità mettendoci accanto ad entrambi con quel silenzio solidale che troppo spesso manca nei nostri Reparti.
Anche questo significa essere un buon medico!

Laura Guerrini
neonatologa presso Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana

Il documento è consultabile a questo indirizzo: http://www.pillole.org/public/aspnuke/articles.asp?id=88

Commento di Luca Puccetti

Il documento “Raccomandazioni per le cure perinatali nelle età gestazionali estremamente basse” è stato oggetto di forti contestazioni. In particolare l'associazione Medicina e Persona ha stigmatizzato i passaggi più critici del documento in cui si raccomanda di non rianimare i neonati con scarse probabilità di sopravvivenza ed elevate probabilità di rimanere disabili. E' stata redatta una lettera aperta che è stata firmata da oltre 200 tra neonatologi, pediatri e ostetrici in cui si contestano errori statistici ed epidemiologici, omissioni di ben conosciuti rapporti italiani. Ma la critica più importante è sull'arrogarsi il diritto di decidere sulla qualità della vita di un altro essere umano da parte di medici che dichiarano di agire per evitare ad altri "sofferenze inutili". La questione è di enorme portata non solo per gli aspetti etici, deontologici e scientifici, ma anche perché pone il problema del ruolo delle società scientifiche e delle modalità con cui esse esprimono pareri di rilevanza generale. Quando società scientifiche annoverano un grande numero di specialisti del settore ed esprimono posizioni pubbliche il loro pronunciamento assurge ad un ruolo di influenza della pubblica opinione e delle istituzioni ed è di orientamento anche alle decisioni giurisprudenziali. Quando i temi su cui la società scientifica è chiamata ad esprimersi riguardano valori di fondo, di importanza generale e possono influenzare il comportamento dei medici su questioni che riguardano aspetti cruciali, quali le cure a supporto della vita in difficoltà, la società ha il diritto di sapere se il parere del rappresentante della società esprime veramente un'opinione condivisa o comunque prevalente dei soci. Non è sufficiente il criterio della rappresentanza legale e del controllo a posteriori dell'operato dei dirigenti. E' viceversa necessario che il parere espresso sia frutto di un processo decisionale trasparente e pubblicamente controllabile che contempli la conoscenza da parte di tutti i soci della problematica e che sia espresso dopo un'adeguata discussione di cui deve rimanere una traccia pubblica. In questa occasione i media hanno dato la notizia con lo slogan: "no all'accanimento terapeutico per gli estremamente prematuri" e con questa scaltra sintesi mediatica si è liquidata una questione che pone enormi problemi etici e deontologici, prima che professionali. Con quale logica e con quale autorità qualcuno dovrebbe consigliare di non tentare di supportare con ogni mezzo ragionevolmente applicabile una vita in difficoltà? Anche se fosse labile la speranza di salvare una vita perché non tentare? Se i motivi fossero economici o per medicina difensiva li riterrei inaccettabili. Se invece alla base del ragionamento si volesse impedire la sopravvivenza di un bambino che svilupperebbe handicap, la cosa sarebbe ancor più grave. Il principio che sottende questo ragionamento, ossia che qualcuno abbia titolo per arrogarsi il diritto di decidere se vale la pena che un'altro viva un certo tipo di vita è lo stesso di quello che nel secolo scorso ha generato quelle mostruosità che hanno sterminato interi popoli e che la storia sembrerebbe aver condannato inappellabilmente, sembrerebbe.....ma c'è qualche cosiddetto bioeticista che propugna il diritto all'infanticidio fino a 15 giorni dopo la nascita da parte della madre per garantire la piena libertà procreativa !


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