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Eventi avversi annullano i benefici degli antipsicotici atipici nell'Alzheimer
Inserito il 01 marzo 2007 da admin. - psichiatria_psicologia - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

Gli eventi avversi vanificano gli effetti positivi degli antipsicotici atipici nel trattamento della psicosi, aggressività o agitazione nei pazienti con malattia di Alzheimer.

Gli antipsicotici atipici sono spesso usati per trattare i sintomi psicotici e di aggressività nei pazienti con malattia di Alzheimer, ma esiste incertezza sui benefici di tali trattamenti anche in rapporto ai dubbi concernenti la sicurezza che sono emersi e che sono stati formalizzati dalle agenzie regolatorie. Al fine di valutare l'efficacia e la tollerabilità sul campo di tali farmaci è stato condotto uno studio multicentrico, in doppio cieco, controllato con placebo della durata di 36 settimane. Sono stati arruolati 421 pazienti consecutivi ambulatoriali affetti da malattia di Alzheimer e psicosi, aggressività o agitazione psico-motoria che sono stati randomizzati a ricevere olanzapina (dose media quotidiana 5.5 mg), quetiapina (dose media quotidiana 56.5), risperidone (dose media quotidiana 1.0 mg), o placebo. Le Dosi sono state aggiustate secondo necessità ed i pazienti sono stati seguiti per 36 settimane. Gli oucomes principali erano rappresentati dal tempo dall'arruolamento all'interruzione dello studio per qualunque motivo e dal numero di pazienti con un qualsiasi miglioramento valutato a 12 settimane mediante la Clinical Global Impression of Change (CGIC).
Non sono emerse differenze significative tra i vari gruppi in riferimento al tempo di interruzione dello studio per qualsiasi motivo: olanzapina (mediana 8.1 settimane), quetiapina (mediana, 5.3 settimane), risperidone (mediana, 7.4 settimane), placebo (mediana, 8.0 settimane) (P=0.52 per il confronto tra gruppi). Facendo riferimento al tempo mediano di interruzione del trattamento per inefficacia l'olanzapina (22.1 settimane), risperidone (26.7 settimane) sono risultati migliori rispetto a quetiapina (9.1 settimane) e placebo (9.0 settimane) (P=0.002). Per quanto riguarda il tempo di interruzione per effetti collaterali il placebo è stato superiore rispetto ai trattamenti attivi considerati nello studio. Nel complesso, il 24% dei pazienti trattati con olanzapina, il 16% di quelli trattati con quetiapina, il 18% di quelli trattati con risperidone, ed il 5% di quelli che avevano ricevuto placebo hanno interrotto il trattamento per intolleranza (P=0.009). Nessuna differenza tra i vari gruppi è stata notata in merito al miglioramento della scala CGIC. Un miglioramento è stato osservato nel 32% pazienti assegnati ad olanzapina, nel 26% di quelli trattati con quetiapina, nel 29% di quelli trattati con risperidone, e nel 21% di quelli che avevano ricevuto placebo (P=0.22).
Gli autori concludono che gli eventi avversi controbilanciano gli effetti degli antipsicotici atipici nel trattamento della psicosi, aggressività o agitazione nei pazienti con malattia di Alzheimer

Fonte: NEJM 2006; 355:1525-1538

Commento Di Luca Puccetti e Renato Rossi

Spesso i pazienti con demenza presentano disturbi comportamentali come allucinazioni, aggressività, agitazione psicomotoria, insonnia e inversione del ritmo sonno-veglia, che mettono in grave difficoltà i familiari che li assistono.
Le benzodiazepine sono generalmente poco efficaci, per cui sono stati proposti i neurolettici, sia convenzionali che atipici. Già si sapeva che gli antipsicotici atipi in questi malati possono essere associati ad effetti collaterali di tipo cardiovascolare ed infettivo e ad un aumento della mortalità . Una revisione recente evidenzia che le migliori prove di efficacia sarebbero a favore di risperidone e olanzapina, ma riconosce che l'effetto è al più modesto e controbilanciato da un aumento del rischio di ictus. Un'altra revisione dell'argomento suggerisce di usare aloperidolo o risperidone solo se strettamente necessario, a dosi basse e rivalutando periodicamente l'opportunità della terapia. E' difficile però convincere i familiari, molto provati, che non ci sono farmaci miracolosi e che la terapia potrebbe anche essere non scevra di effetti collaterali. I sintomi sono molto difficili da controllare, non di rado altalenanti, e la risposta, quando c'è, si presenta del tutto imprevedibile e spesso bisogna, dopo poco tempo, sostituire il farmaco con un altro per perdita di efficacia.
Tuttavia, come avvenuto per i coxib ed i FANS, una volta esaminati più approfonditamente di quanto fatto nel passato, i vecchi farmaci non si sono rivelati affatto più sicuri dei nuovi. In uno studio di tipo caso-controllo si è valutata l'associazione tra uso di antipsicotici e rischio di aritmie ventricolari ed arresto cardiaco. L'uso di antipsicotici convenzionali è risultato associato ad un rischio doppio di essere ricoverati per aritmie ventricolari od arresto cardiaco (soprattutto se coesiste una cardiopatia) mentre non è stato dimostrato nessun aumento del rischio per gli antipsicotici atipici. Un altro studio retrospettivo di coorte ha coinvolto 22.890 soggetti anziani (età >= 65 anni) che hanno iniziato ad assumere un antipsicotico (convenzionale o atipico) tra il 1994 e il 2003. L'uso degli antipsicotici convenzionali è risultato associato ad un aumento del rischio di morte rispetto agli antipsicotici atipici. Il rischio di morte è stato più elevato all'inizio della terapia e con le dosi più alte di antipsicotici convenzionali. Uno studio di popolazione suggerisce che non vi sono grandi differenze tra neurolettici convenzionali e atipici, perlomeno per quanto riguarda il rischio di stroke.
Lo studio recensito dimostra i dubbi già da più parti sollevati sull'impiego degli antipsicotici atipici per il controllo dei sintomi psicotici dei pazienti con malattia di Alzheimer. Gli antipsicotici atipici negli anziani possono essere associati ad un aumentato rischio di morte rispetto al placebo principalmente per cause cardiovascolari od infettive. L'allarme è stato ripreso anche dalla FDA che ha emanato un "warning" (vedi: http://www.fda.gov/cder/drug/advisory/antipsychotics.htm).
Anche l'Agenzia Italiana del Farmaco ha emanato un provvedimento con cui sono stati modificati gli stampati delle specialità commerciali contenenti clorpromazina, levomepromazina, promazina, dixirazina, flufenazina, perfenazina, trifluoperazina, proclorperazina, periciazina, aloperidolo, pipamperone, bromperidolo, droperidolo, benperidolo, zuclopentixolo, pimozide, clozapina, quetiapina, sulpiride, sultopride, tiapride, amisulpride, veralipride, levosulpride, risperidone, clotiapina.
La modifica è stata apportata nella sezione avvertenze speciali e precauzioni d’uso, con l’introduzione del seguente testo: “In studi clinici randomizzati versus placebo condotti in una popolazione di pazienti con demenza trattati con alcuni antipsicotici atipici è stato osservato un aumento di circa tre volte del rischio di eventi cerebrovascolari. Il meccanismo di tale aumento del rischio non è noto. Non può essere escluso un aumento del rischio per altri antipsicotici o in altre popolazioni di pazienti.”
Il presente studio è inoltre un ottimo esempio di come sia possibile ottenere informazioni importanti anche mediante studi semplici. In particolare è da sottolineare la scelta di un parametro che sembra persino ovvio, ma che invece spesso non viene considerato, ossia il tempo di permanenza con un dato trattamento senza distinzioni tra interruzioni per inefficacia o intolleranza. Questo parametro riflette una summa che compenetra tollerabilità ed efficacia e rappresenta un'ottima stima della bontà sul campo di un dato trattamento. I risultati dicono che a livello di popolazione i benefici degli antipsicotici sono annullati dagli effetti collaterali ed anche la scala di valutazione del miglioramento non ha mostrato variazioni significative rispetto al placebo. In definitiva occorre valutare caso per caso l'utilità di trattamenti antipsicotici valutando con molta attenzione la comorbidità. Tuttavia non dobbiamo rifuggire da un tema che, sia pur ponendo importanti questioni etiche, va pur sempre considerato, ossia il contesto familiare e la qualità di vita di chi deve assistere i pazienti. Quando il paziente è assistito in una famiglia sarebbe opportuno estendere la valutazione non solo agli effetti sul paziente, ma anche a quelli sull'intero nucleo familiare.

Nel gennaio 2007 l'AIFA ha aggiornato le due determinazioni per la prescrizione degli antipsicotici atipici nei disturbi comportamentali associati a demenza:
http://www.pillole.org/public/aspnuke/news.asp?id=3033

Bibliografia

1.Focus. Bollettino di Farmacovigilanza n. 37, febbraio-maggio 2004.
2 CMAJ 2002 Nov 26: 167:1269
3 CMAJ 2004 Apr 27, 170:1395
4. CMAJ 2005 Aug 2; 173:252.
5. BMJ 2005 Feb 26; 330:445
6. JAMA 2005 Feb 2; 293:596-608
7. Australian Prescriber 2005 Number 3;8:67–70
8. JAMA. 2005; 294:1934-1943.
9. BMJ 2005; 330:445
10. N Engl J Med 2005; 353: 2335-2341
11. Arch Intern Med. 2005; 165:696-701
12. Isr Med Assoc J. 2004;6(5):276-9


Commento di Marco Grassi

La maggior parte dei trial sugli effetti degli antipsicotici nei pazienti con Alzheimer sono disegnati in modo tale che i pazienti siano randomizzati a ricevere farmaco attivo a dosi fisse vs placebo ( o farmaco di confronto), con misure di efficacia valutate ad un tempo prefissato utilizzando scale di severità dei sintomi. Questi tipo di disegno di studio è molto utilizzato per una serie di buone ragioni, ovviamente nell'ottica di chi esegue lo studio. Per esempio la misura di efficacia ad un tempo prefissato evita di raccogliere più dati del necessario, accorcia la durata dell'osservazione e aumenta la probabilità di avere risultati statisticamente significativi ( anche se non sempre clinicamente rilevanti). L'utilizzo di scale di severità dei sintomi, come misura di efficacia, rende inoltre relativamente più facile ottenere risultati statisticamente significativi rispetto all'utilizzo di misure di efficacia di tipo dicotomico, come ad esempio presenza/assenza di un sintomo. E' pertanto comprensibile, e forse anche giustificabile, che questo disegno di studio sia quello più utilizzato per ottenere l'approvazione al commercio da parte degli enti regolatori. Tuttavia questo disegno di studio ha uno scarso valore nell'ottica del medico pratico perchè i risultati generati sono difficili da interpretare e trasferire nella pratica corrente. In sostanza vengono utilizzati dosaggi e tempi di sommistrazione dei farmaci, tipo di end point e scale di severità dei sintomi non aderenti alla realtà clinica della malattia.
Lo studio di Schneider e coll. supera questi problemi con un disegno di studio che può sembrare poco convenzionale e criticabile ma che ha il pregio di aderire alla realtà clinica molto più di quanto lo siano i tradizionali trial. Per esempio, l' inconsueto end point primario è basato su una misura aderente alla pratica reale: la decisione di cambiare il trattamento dopo un ragionevole lasso di tempo per inefficacia e consentire la titolazione del farmaco fino a raggiungere l'effetto sperato. Anche la definizione di efficacia è inconsueta, essendo definita come il tempo intercorso fra l'inizio del trattamento e la decisione di cambiare il farmaco, sia per mancanza di effetto terapeutico che per impossibilità del paziente di assumere il farmaco a causa di effetti collaterali insostenibili. L'end point primario riflette quindi la pratica clinica reale, cioè la decisione di effettuare una modifica terapeutica perchè il paziente peggiora, per effetti collaterali importanti, o non migliora quanto sperato. Anche la possibilità di titolare il farmaco utilizzando dosaggi flessibili, pur mantenendo la cecità, è aderente a quanto avviene normalmente nella pratica clinica. Sebbene l'assegnazione di dosaggi fissi e prestabiliti abbia una efficienza statistica superiore, nondimeno nella pratica clinica corrente è inusuale utilizzare dosaggi fissi di farmaci, il che contrasta inoltre con un caposaldo della farmacologia clinica, la titolazione del farmaco, pratica particolarmente importante nella popolazione psicogeriatrica.
Il trial è stato finanziato con fondi pubblici attraverso il National Institute of Health statunitense e inaugura una serie di trial basati sul cosiddetto "adaptive design" ( disegno di studio adattabile n.d.a.) che anche la FDA si augura siano sempre più estesemente utilizzati.


Bibliografia

1. Karlawish J. Alzheimer’s Disease — Clinical Trials and the Logic of Clinical Purpose N Engl J Med 2006; 355;15: 1604-6

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