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Tribunale di Lucca : si ad aborto eugenetico
Inserito il 05 luglio 2008 da admin. - ostetricia - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

Per difetto di informazione da parte del medico di gravi malformazioni fetali per omessa diagnosi prenatale che preclude il diritto della madre di scegliere l'aborto, il sanitario risponde dei danni, patrimoniali e non.

Ancora una sentenza assai discutibile in merito all'omessa diagnosi di malformazioni fetali che impedisce alla madre di poter esercitare il diritto ad abortire.

Il tribunale di Lucca con la sentenza del 19.02.2007 condanna un medico ginecologo che pur avendo eseguito ecografie alla XI, XXI e XXIX settimana, ed esami di laboratorio che, a detta del ginecologo, non avevano evidenziato neppure il sospetto di eventuali anomalie del feto, non aveva informato per omessa diagnosi prenatale la madre dell'esistenza di emimelia dell'arto superiore destro e atresia della valvola tricuspide con difetto del setto interventricolare.

I querelanti sostenevano che le indicate malformazioni sarebbero state facilmente evincibili dagli esami ecografici e che l'errore aveva leso il diritto di scelta della madre circa il fatto se interrompere la gravidanza. Si lamentavano danni patrimoniali, da lucro cessante per le necessità della madre di limitare l'attività lavorativa in funzione delle esigenze di assistenza del figlio e per spese, anche future, per assistenza; nonché danni non patrimoniali correlati al turbamento subito ed alle consequenziali limitazioni della propria qualità della vita; danni patiti anche dalla sorella, per i sacrifici connessi alla necessità dei genitori di riversare maggiori attenzioni e cure nei confronti del soggetto handicappato.

Il ginecologo negava la colpa professionale, anche in relazione al disposto ex art. 2236 c.c., e contestava, ad ogni modo, la sussistenza delle condizioni per l'interruzione della gravidanza, vuoi in rapporto allo stato della gravidanza medesima in XI settimana, ex art. 4 della legge n. 194/78, vuoi in relazione ai limiti evidenziati nel disposto ex art. 6 della legge citata.

Il tribunale fa riferimento al disposto ex art. 6, lett. (b), della legge n. 194/78, ai sensi del quale l'interruzione della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

Riferendosi a due sentenze della Cassazione il tribunale da per scontato che la gestante, se informata correttamente sulla gravità delle patologie del nascituro, interrompa la gravidanza (Cass. 29.7.2004, n. 14488; Cass. 21.6.2004, n. 11488).

La responsabilità è contrattuale così, in ossequio al disposto ex art. 1218 c.c., non è la gestante a dover provare la colpa, ma il medico la sua innocenza per impossibilità della prestazione diagnostica em pertanto risponde dei danni patrimoniali e non conseguenti immediatamente e direttamente al suo inadempimento (Cass. 21.6.2004, n. 11488; Cass. 4.3.2004, n. 4400; Cass. 10.5.2002, n. 6735)

Il CTU afferma che la visualizzazione dei quattro arti è, nello studio dell'anatomia fetale, la fase che richiede più tempo agli operatori esperti e che risulta di più difficile apprendimento. Tuttavia si tratta di un accertamento di routine che ordinariamente non implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, ma piuttosto l'esercizio, oltre che della perizia che si può legittimamente pretendere da un ecografista ostetrico, di speciale prudenza e diligenza.
Qualora la posizione del feto non consenta nel corso dell'esame di apprezzare con sicurezza la presenza dei quattro arti, prudenza vuole che la gestante sia invitata a ripresentarsi nuovamente lo stesso giorno, o nei giorni successivi, per un ulteriore accertamento in condizioni più favorevoli.
In altri termini, la visualizzazione dei quattro arti rappresenta l'id quod plerumque accidit dell'esame ecografico: pertanto la mancata diagnosi di una condizione di focomelia rimanda a una difettosa prestazione professionale".

Pertanto a nulla vale opporre la limitazione di responsabilità prevista dal disposto ex art. 2236 c.c.
In primo luogo perché la limitazione prevista dalla citata norma rileva nei soli casi di colpa per imperizia, laddove dalla c.t.u. emergono chiari elementi nel senso di una colpa per difetto di prudenza e di diligenza.
In secondo luogo perché l'onere della prova, in ordine alla contingente speciale difficoltà della prestazione diagnostica, tale da comportare una deviazione dalla serie argomentativa incentrata sul carattere routinario dell'accertamento, incombeva al medico; il quale, invece, si è limitato a tessere meri asserti privi di specifico riscontro.

Dunque gli elementi contestati sono:

1) non trattasi tanto di imperizia quanto di imprudenza e negligenza
2) mancata prova (da parte del ginecologo) che la prestazione era difficile e non alla stregua della normale capacità professionale.

Ma ecco che arriva la parte più importante dal punto di vista dei principi generali della sentenza.

Poiché, in presenza di gravi anomalie o malformazioni del nascituro, si presume che la donna, se correttamente informata, interrompa la gravidanza per l'insorgenza di un grave pericolo quanto meno per la sua salute psichica (ipotesi che, nella specie, il c.t.u. ha oltre tutto evidenziato come assai verosimile in concreto, sulla base dei disturbi dell'adattamento riscontrati nella I. post partum), devesi concludere, essendo mancata qualsivoglia concreta indicazione di segno contrario a onere della convenuta, nel senso dell'indubbio apprezzamento dell'an respondeatur.

Il danno esistenziale lamentato dai querelanti è quel pregiudizio che incide "sul fare aredittuale del soggetto", mediante alterazione delle abitudini di vita e degli assetti relazionali che gli erano propri, "sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno" (Cass. sez. un. 24.3.2006, n. 6572). Un danno, soprattutto, che ove allegato e dimostrato nelle circostanze comprovanti l'alterazione, per effetto dell'illecito, delle pregresse abitudini di vita, va liquidato senza una previa determinazione su base tabellare, sebbene secondo prudente apprezzamento caso per caso.
Tanto considerato, non è dubbio che un danno di tipo esistenziale debba considerarsi, nella specie, conseguenza ontologicamente certa dell'inadempimento della V.
E questo perché è assolutamente ovvio - senza necessità di ricorrere ad artifici verbali - che la nascita di un bambino polimalformato, con rilevanti anomalie di tipo scheletrico e di tipo cardiaco, determina per sua natura, nei genitori, uno sconvolgimento delle future prospettive di vita e una correlativa necessità di adeguamento alle necessità del figlio di tutte le più disparate forme di realizzazione personale.

La riparazione di un simile danno sfugge a una precisa determinazione, al pari di ciò che accade con riferimento all'altra tipologia di danno non patrimoniale - qual è il danno da turbamento transeunte - che esso pure certamente va apprezzato con riguardo alla posizione degli attori, e che, peraltro, va ritenuto un minus della proiezione futura delle conseguenze non patrimoniali sull'intera vita dei danneggiati.
In via equitativa, si reputa conforme a giustizia liquidare, a ciascuno dei genitori, il complessivo importo, in moneta attuale, di Euro 300.000,00. Il riflesso della predetta condizione sugli assetti di vita dell'altra figlia configura - esso pure - un pregiudizio di tipo esistenziale ontologicamente certo, che si aggiunge alla mera sofferenza, acuta ma contingente, dovuta alla nascita del fratellino handicappato. In chiave risarcitoria, sembra possibile liquidare, a siffatto titolo, l'importo di Euro 100.000,00.
VII. - La domanda non può invece trovare accoglimento con riguardo ai costi di assistenza e alle perdite derivate dalla necessità della madre di limitare la propria vita lavorativa in funzione delle esigenze del figlio.
Il primo profilo è dedotto alla stregua di danno emergente, ma in modo generico. Nulla invero è evidenziato al fine di minimamente apprezzare se e quali esborsi, non a carico del servizio sanitario nazionale, potranno incidere in futuro sul patrimonio familiare, sì da rappresentarne una sicura perdita.
Il secondo profilo risente di eguale lacunosità, essendo dedotto alla stregua di lucro cessante un fatto - la limitazione dell'attività di lavoro - che non risulta provato nel presupposto. I documenti prodotti sub lett. D della memoria I. ex art. 184 c.p.c. rappresentano reiterate (e sempre respinte) domande di concessione di part-time, senza tuttavia alcuna indicazione in ordine alla retribuzione percepita.
La stessa prova della fruizione delle possibilità offerte dalla legge n. 104/92, che pure è stata fornita per documenti, non assume rilevanza in mancanza di dati in ordine al reddito da lavoro dipendente. Donde, ove anche in astratto si convenisse in merito alla perdita di future prospettive di miglioramenti nel lavoro, nessuna conseguenza se ne potrebbe trarre ai fini del mancato guadagno.

Lucca il 17 gennaio 2007. Depositata in Cancelleria il 19 febbraio 2007

Fonte: E. Grassini; http://www.dirittonsanitario.net

Commento di Luca Puccetti

La sentenza al di là degli aspeti tecnici che sono interessanti anche per i medici legali ed i cultori del diritto, al cittadino ed al medico comune importa soprattutto per alcuni asserti che vanno in una direzione diametralmente opposta a quella di una recente sentenza di Cassazione su un caso analogo che aveva francamento fatto sperare che sentenze di tal genere non sarebbero più state pronunciate. Non sfuggirà infatti il ragionamento di fondo che alberga dietro a questa logica. Il nascituro può nascere solo se sano e la semplice esistenza di malformazioni è pericolo grave per la salute della madre.

Ma di cosa si sta cianciando ? Dietro a questo comodo paravento della depressione postpartum sarebbe possibile giustificare ogni interruzione di gravidanza.
Lo spirito della legge è chiarissimo deve essere in pericolo grave e concreto la salute della madre altro che depressioni postpartum o reattive alla condanna di dover assistere un handiccappato.

E dove sono i diritti del concepito che la legge tutela chiaramente? Chi risarcirebbe il concepito medesimo di un diritto postumo negato? Chi la società della mancata nascita di un soggetto portatore di diritti, soccombenti solo dinanzi a quelli della madre purché in presenza di rischi gravi e concretissimi per la sua salute?
Quanti Michel Petrucciani, Henri de Toulouse-Lautrec o Thomas Quarsthoff non sarebbero mai nati ?

Così si era infatti espressa la Cassazione, Sez. III Civile, 14/07/2006 con Sentenza n. 16123 , nettamente contro ogni tentativo mascherato di aborto eugenetico.
La suprema Corte era stata chiamata a discutere un ricorso in merito ad una causa che vedeva contrapposti da un lato i genitori e dall'altro un medico che avrebbe omesso di informarli circa la sussistenza di anomalie dello sviluppo fetale. I genitori chiedevano un risarcimento per non essere stati posti nella condizione di emigrare in un paese meno restrittivo dell'Italia in tema di aborto ed un risarcimento sia per il malformato, per essere stato condannato a nascere e a vivere malformato (sic!), che per la sorella.
La Corte sentenziava che non è configurabile un diritto a “non nascere” o a "non nascere se non sano”, essendo per converso tutelato dall'ordinamento - anche mediante sanzioni penali - il diritto del concepito a nascere, pur se con malformazioni o patologie. E’ da escludersi pertanto la configurabilità del c.d. aborto eugenetico, che prescinda dal pericolo derivante alla salute della madre dalle malformazioni del feto.

Evocando anzitutto Cass., 29/4/2004, n. 14488, la S.C. afferma che l'ordinamento positivo tutela il concepito e l'evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita, e non anche verso la "non nascita", essendo pertanto al più configurabile un "diritto a nascere" e a "nascere sani", suscettibile di essere inteso esclusivamente nella sua positiva accezione, sia sotto il profilo privatistico della responsabilità contrattuale o extracontrattuale o da "contatto sociale", sia sotto il profilo latamente pubblicistico, della predisposizione di tutti gli istituti normativi e di tutte le strutture di tutela, cura e assistenza della maternità idonei a garantire (nell'ambito delle umane possibilità) di nascere sano.

E’ esclusa invece la configurabilità in capo al concepito di un "diritto a non nascere" o a "non nascere se non sano", poiché dal combinato disposto degli artt. 4 e 6 della legge n. 194 del 1978 si evince che:
a) l'interruzione volontaria della gravidanza è finalizzata solo ad evitare un pericolo per la salute della gestante, serio (entro i primi 90 giorni di gravidanza) o grave (successivamente a tale termine);
b) trattasi di un diritto il cui esercizio compete esclusivamente alla madre; c) le eventuali malformazioni o anomalie del feto rilevano esclusivamente nella misura in cui possano cagionare un danno alla salute della gestante, e non già in sé e per sé considerate (con riferimento cioè al nascituro). E come emerge ulteriormente:
a) dalla considerazione che il diritto di "non nascere" sarebbe un diritto adespota (in quanto ai sensi dell'art. 1 cod. civ. la capacità giuridica si acquista solamente al momento della nascita e i diritti che la legge riconosce a favore del concepito - artt. 462, 687, 715 cod. civ. - sono subordinati all'evento della nascita, ma appunto esistenti dopo la nascita), sicché il cosiddetto diritto di "non nascere" non avrebbe alcun titolare appunto fino al momento della nascita, in costanza della quale proprio esso risulterebbe peraltro non esistere più;
b) dalla circostanza che ipotizzare un diritto del concepito a "non nascere" significherebbe configurare una posizione giuridica con titolare solamente (e in via postuma) in caso di sua violazione, in difetto della quale (per cui non si fa nascere il malformato per rispettare il suo "diritto di non nascere") essa risulterebbe pertanto sempre priva di titolare, rimanendone conseguentemente l'esercizio definitivamente precluso.

La Suprema Corte ne trae, quale corollario, la conseguente esclusione della configurabilità ed ammissibilità del c.d. aborto "eugenetico", prescindente dal pericolo derivante dalle malformazioni fetali alla salute della madre, rilevando che l'interruzione della gravidanza al di fuori delle ipotesi di cui agli artt. 4 e 6 legge n. 194 del 1978, accertate nei termini di cui agli artt. 5 ed 8, oltre a risultare in contrasto con i principi di solidarietà di cui all'art. 2 Cost. e di indisponibilità del proprio corpo ex art. 5 cod. civ., costituisce reato anche a carico della stessa gestante (art. 19 legge n. 194 del 1978).

E’ per converso il diritto del concepito a nascere, pur se con malformazioni o patologie, ad essere propriamente - anche mediante sanzioni penali - tutelato dall'ordinamento.

Verificatasi la nascita, non può dal minore essere fatto conseguentemente valere come proprio danno da inadempimento contrattuale l'essere egli affetto da malformazioni congenite per non essere stata la madre, per difetto d'informazione, messa nella condizione di tutelare il di lei diritto alla salute, facendo ricorso all'aborto ovvero di altrimenti avvalersi della peculiare e tipicizzata forma di scriminante dello stato di necessità (assimilabile, quanto alla sua natura, a quella prevista dall'art. 54 cod. pen.) prevista dall'art. 4 legge n. 194 del 1978, risultando in tale ipotesi comunque esattamente assolto il dovere di protezione in favore di esso minore, così come configurabile e tutelato (in termini prevalenti rispetto - anche - ad eventuali contrarie clausole contrattuali: art. 1419, secondo comma, cod. civ.) alla stregua della vigente disciplina.

Nel fare richiamo a Cass. 24/3/1999, n. 2793, la Suprema Corte ribadisce altresì che il risarcimento del danno per il mancato esercizio del diritto all’interruzione della gravidanza non consegue automaticamente all’inadempimento dell’obbligo di esatta informazione cui il medico è tenuto in ordine alle possibili anomalie o malformazioni del nascituro, essendo al riguardo necessaria la prova della sussistenza delle condizioni previste dagli artt. 6 e 7 L. n. 194 del 1978 per ricorrere all’interruzione della gravidanza.

La Suprema Corte esclude invece la sussistenza di un diritto all’informazione (anche) in favore degli stretti congiunti (nel caso, la sorella minorenne) del nato, e conseguentemente la configurabilità di un danno risarcibile in suo favore per la relativa omissione da parte del medico.

Confidiamo che la sentenza del tribunale di Lucca possa pertanto trovare la giusta riforma nelle sedi competenti.

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