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Il medico di famiglia e la depressione
Inserito il 10 gennaio 2009 da admin. - psichiatria_psicologia - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

La depressione è spesso legata a fenomeni sociali ed il medico di famiglia instaurando un rapporto empatico personale con i propri pazienti depressi cura efficamente non la malattia, ma la persona più con l'ascolto e la disponibilità che con i farmaci.

Background: Che cos’è la “depressione”, oggi?

Sul Piano nazionale delle Linee-Guida (PNLG) cap. 49, si legge:

La depressione è un problema di Salute Mentale frequente e dispendioso, di frequente riscontro da parte del medico di medicina generale. Il Disturbo Depressivo si riscontra in una percentuale compresa tra il 5 e il 13% dei soggetti seguiti nell’ambito della Medicina Generale. La prevalenza nella popolazione è del 3-5%. Gli oneri economici connessi alla Depressione negli USA (costi diretti, legati alla mortalità e alla coesistenza di altre patologie) sono stimati in 44 miliardi l’anno… Il tasso di suicidio è otto volte più elevato rispetto alla popolazione generale…”


L’OMS ha previsto un aumento progressivo di incidenza e prevalenza della Depressione sino al 2020, tanto da preconizzare la Depressione come seconda patologia invalidante, seconda solo alle patologie cardiovascolari e superiore per incidenza anche ai tumori. Si calcola che in Italia la depressione colpisca un milione e mezzo di italiani, soprattutto anziani, con un’incidenza doppia nelle donne, soprattutto tra i 40 e i 50 anni, in 8 casi su 10 la malattia ha una ricaduta . Ancora scarsa l’aderenza terapeutica, molte terapie sono interrotte prima della remissione.

Ma cosa si intende per depressione, oggi ?

Attualmente, i sistemi nosografici utilizzati in psichiatria non fanno più riferimento alla depressione “psicotica e nevrotica”, “endogena e reattiva”, ma solo alla gravità dei sintomi e al loro impatto sul funzionamento sociale. La depressione è grave, mediamente grave, meno grave… Per i neurobiologi è legata ad alterazioni dei neuromediatori cerebrali; per Freud alla regressione della libido dovuta all’ambivalenza nei confronti dell’oggetto perduto; per i cognitivisti deriva da un alterato attaccamento alle figure parentali, con sentimenti di perdita; i sociologi pongono l’accento sulle cause socio-economico-ambientali. A. Ehrenberg ne dà una lettura interessante, focalizzando la patologia “dell’azione”, piuttosto che quella “dell’umore”:

“In un mondo in cui la norma non è più fondata sulla esperienza della colpa e della disciplina interiore, ma sulla responsabilità individuale e sulle capacità di iniziativa, cioè, sull’ autonomia delle decisioni e delle azioni, la depressione esprime la patologia della società che la genera.”


Se i paradigmi sociali, infatti, che caratterizzano la nostra cultura sono quelli di “progetto”, “motivazione”, “comunicazione”, la depressione è, di contro, una patologia del tempo (senza futuro), della motivazione (senza energia), della comunicazione (isolamento e silenzio).” (1) Per U. Galimberti) viviamo l’età della tecnica, nella quale più che l’identità dell’uomo conta la sua funzione e gli individui sono sempre più uniformati gli uni agli altri; il dolore, rimosso dal sociale viene affidato alla competenza tecnica. In tal modo chi delega è esonerato dal peso del dolore, affidato al sapere scientifico, che trova, allora, le sue “consolazioni tecniche”. Sempre più ci si allontana dalla dimensione greca, tragica dell’esistenza, per la quale la vita è crudeltà e guerra tra molte vite. (2)
In questo complesso panorama culturale si muove ogni giorno il medico di famiglia.




Chi è il “medico di famiglia”, oggi?

C’è oggi chi scrive di “Medicina Modale”, di una medicina “che ammette, secondo le sue modalità ragionative, le sue modalità operative” (3)
Ebbene, chi scrive crede che il medico di famiglia sia, tra i vari professionisti medici, quello che più si avvicina alla pratica di una tale Medicina, perché egli sa che “tra ciò che è dimostrato falso e ciò che è dimostrato vero, vi è tutto ciò che non è riconosciuto assurdo”, pertanto opera quotidianamente la “Medicina della scelta”, selezionando la logica e il ragionamento più convenienti al caso, scegliendo, cioè, la modalità. Egli resta, forse, l’unico medico che, per dirla con Ippocrate, si fa filosofo e, pertanto, diventa simile a un dio. Egli si avvale infatti del sapere scientifico, ma non con l’atteggiamento onnipotente del salvatore, bensì con la consapevolezza del filosofo che conosce i limiti di ogni forma di sapere. Jaspers diceva che, giunti ai confini della medicina scientifica, senza filosofia non si può dominare la stoltezza.

E così il professionista medico di famiglia studia le evidenze della letteratura medico scientifica, si aggiorna, corregge il suo operato, affina le sue capacità relazionali; conosce i questionari per la diagnosi della depressione, ma non li somministra ai suoi pazienti, conosce i criteri diagnostici del DSM n.., dell’ICD n…, ma gli sembrano troppo riduttivi o distorsivi del rapporto empatico. Il medico di Medicina Generale ogni giorno vive la sua pratica professionale consapevole che due persone entrano in contatto l’una con l’altra: una chiede aiuto, l’altra cerca di dare aiuto, ed insieme, nella relazione, viene costruito il processo di cura.

Il “medico di famiglia” e la diagnosi

B. Saraceno sosteneva che “il medico di Medicina Generale segue un approccio che in parte è orientato alla clinica, in parte ai problemi del paziente”. La sua classificazione psichiatrica solo in parte fa riferimento ad entità nosografiche (“depressione”), spesso è, invece, focalizzata su “condizioni quadro”, fortemente influenti sulla relazione con il paziente, e sulle condotte di trattamento.” (4). Alcuni hanno affermato che i medici di famiglia non sono in grado di diagnosticare la depressione se non nel 50-75% dei casi o non sono in grado di curarla adeguatamente (prescrivendo troppe benzodiazepine e pochi antidepressivi). Secondo alcuni il medico di famiglia è tassofobico , odia le classificazioni nosografiche, ma a ben ragione, perché invero egli pratica una medicina centrata sulla persona e non sulla malattia, laddove la codifica nosografica è invece centrata sulla malattia. Molte depressioni sotto soglia non ricevono dal medico di medicina generale trattamenti farmacologici e questo, per alcuni sarebbe un indice di inapopropriatezza. Per favorire la diagnosi si avanzano progetti di screening, si propongono sempre più perfezionate scale e questionari, nonostante la mancanza di solide evidenze a sostegno: ancora dal PNLG:

“Sulla scorta dei dati disponibili, non è possibile formulare raccomandazioni a favore o contro l’utilizzo, di routine, nell’ambito della Medicina Generale, di questionari standardizzati per l’identificazione della depressione in pazienti asintomatici (Raccomandazione C)”.


I programmi di screening sono frequentemente supportati dall’Industria, spesso preceduti da campagne allarmanti sui media volte a denunciare il dilagare della depressione, talora anche promossi da politiche sanitarie. Molto discusso è lo screening promosso dal National Screening Commettee in the United Kingdom; sul BMJ Simon Gilbody, Trevor Sheldon e Simon Wessely (5) criticano i criteri adottati, non ritenendo lo screening promosso una via efficace né clinicamente, né rispetto ai costi, per aumentare il benessere psichico della popolazione. Secondo gli Autori, lo screening dovrebbe essere considerato solo come una parte di un pacchetto teso al miglioramento della cura, senza il quale, implementare lo screening rischia di associarsi ad un incremento dei costi, senza benefici.
Non appare dunque peregrino che lo zelo profuso verso l’ emersione diagnostica e la codifica serva proprio a favorire l’intervento, sotto forma di trattamento farmacologico o di invio allo specialista. Nella Medicina Generale, invece, si continua a favorire l’attesa e il sostegno.

Il “medico di famiglia” e la terapia

Da quando è arrivata l’epoca degli SSRI, molecole assai più maneggevoli dei “vecchi” antidepressivi, anche il medico di famiglia ha iniziato a trattare farmacologicamente la depressione. Gli SSRI vengono presentati come farmaci in grado di correggere il deficit della funzione serotoninergica a livello del SNC che sarebbe implicato nella patogenesi della depressione. Tuttavia il loro impiego è approvato anche in altri disturbi psichiatrici: dalla fobia al panico, dall’ansia al disturbo ossessivo-compulsivo, dalla bulimia al disturbo disforico premestruale. Questi composti hanno dato prova di una qualche efficacia anche in alcune malattie croniche, dal post infarto alla patologia neoplastica.

Tuttavia sono stati segnalati un aumento del rischio di suicidio in alcune casistiche trattae con SSRI, rischi per il feto derivanti dall’uso in gravidanza, reazioni avverse dovute alla sindrome da serotoninergici e per quella da brusca sospensione. Jeffrey R. Lacasse e Jhonatan Leo (6) sottolineano l’ incongruenza tra la letteratura scientifica e la pubblicità degli SSRI, consentita dall’FDA, riguardo al loro meccanismo d’azione. Negli USA infatti gli SSRI sono pubblicizzati direttamente ai consumatori e in queste campagne di advertising gli SSRI sono presentati come farmaci in grado di correggere uno squilibrio clinico causato da una mancanza di serotonina. La sertralina nel 2004 è diventato il sesto farmaco più venduto in USA, con un fatturato superiore ai tre miliardi di dollari. Alcuni autori, tuttavia, sostengono che il ragionamento che riconduce la depressione ad una mancanza di serotonina sol perché gli SSRI funzionano è assai debole. Ulteriori dubbi derivano anche da evidenze di alcuni studi cliniciche evidenziano una differenza assai poco statisticamente significativa tra antidepressivi e placebo, tra SSRI e triciclici, tra SSRi e buproprione. Recentemente è stata introdotta nella farmacopea la duloxetina, che incide sia sulla serotonina che sulla norepinefrina, disconfermando il meccanismo patogenetico “esclusivizzante” di azione sulla serotonina ipotizzato al lancio degli SSRI.
I medici di medicina generale hanno fatto esperienza nell’uso di tali farmaci e questo comporta che gli psichiatri temano che venga “sottratto loro il campo” e che i burocrati-amministratori si lamentino di un aumento della spesa, L’assessore alla sanità della regione Piemonte nel 2006 ha criticato la “facilità” con la quale i MMG prescrivono gli antidepressivi, sostenendo che è un atteggiamento da correggere - 241000 prescrizioni in un anno in Piemonte. Tuttavia il responsabile dell’area psichiatrica della Società Italiana di Medicina Generale, dr P. Carbonato, che ha fatto notare che un tal numero di prescrizioni, stando alle statistiche, sta ad indicare che viene trattato farmacologicamente un depresso su quattro. Chi si candida a gestire la Res Publica dovrebbe piuttosto individuare quale sia la responsabilità sociale nella gestione del problema? Qual è oggi il confine tra la depressione sotto soglia e il mal di vivere, se la gente non regge il dolore di esistere, tanto esorcizzato e rimosso, o lo teme e lo somatizza o lo trasforma in ansia o lo affoga nella dipendenza?

Il “medico di famiglia” e gli specialisti

Di fronte a cotanti problemi cosa può fare il medico di famiglia? Un’opzione, da molti caldeggiata, è quella di riferire il paziente all’ambito specialistico, ma, se escludiamo i casi di depressione maggiore, e parliamo di quei casi limite in cui si teme di fare troppo o troppo poco e nel dubbio si invia il paziente allo specialista nove volte su dieci il paziente torna con la prescrizione di un SSRI. Viene da chiedersi come possa lo psichiatra capire in una sola visita quello che il medico di famiglia non riesce a comprendere di una persona di cui conosce l’intero vissuto, l’ambiente familiare e sociale. Certamente gli psichiatri debbono purtropo “difendersi” dai rischi di un eventuale suicidio, visto il terrore che si semina contro di loro (la AIPSI-MED ha redatto un comunicato stampa per denunziare la condanna di uno psichiatra di Imola condannato per un delitto commesso da un suo paziente. - 8 ).
Si parla spesso di collaborazione sul territorio, di percorsi condivisi, della loro validità, a cominciare dalle pionieristiche ricerche di Michael Shepherd, a partire dagli anni ’60, fino agli attuali progetti di collaborazione “Evidence-Based” (nella regione Emilia Romagna è già da anni in corso un progetto “Psichiatria e Medicina di Base” e altrettanto valide iniziative esistono in tutta Italia, ma più spesso volontaristiche e non finanziate (9) ), ma quando si comincia a parlare di risorse da investire, ogni buon proposito svanisce.


Il “medico filosofo”

E allora, con le modalità e le possibilità del caso, nel rispetto dei valori e del vissuto del paziente, con la valutazione delle risorse esistenti, di volta in volta, insieme al paziente medesimo, il medico di famiglia opera delle scelte. Usando ogni mezzo possibile, dall’intervento sulla famiglia a quello sul sociale, dalla condotta di attesa con proposta di incontri più frequenti, all’ uso di un farmaco, ai gruppi di auto-aiuto disponibili, alla psicoterapia. Mentre opera questa scelte il medico filosofo sa che molto di quanto accade è generato dal sociale, che la depressione è espressione della patologia del tempo, è consapevole, anche per una saggia diffidenza di fondo, delle ripetute confutabili ipotesi patogenetiche sui neuromediatori cerebrali e della aree cerebrali che la PET mostra interessate, ma crede ancora che l’ uomo sia più complesso di un ammasso di composti chimici. Il Medico di famiglia sa che gli SSRI hanno molte interazioni ed effetti collaterali, danno spesso problemi alla sospensione e che spesso non guariscono la depressione, quanto, piuttosto, la cronicizzano in un’ accettabile stabilità, che talora presenta alcuni vantaggi. Perché, se è vero che il farmaco dà solo sollievo ad una sofferenza che è il segnale di un conflitto che non viene eliminato, ma solo “congelato”, talvolta, per qualcuno, è utile anche rimandare il confronto con il conflitto, e l’insistenza nel proporre la psicoterapia; laddove c’è resistenza (o, peggio, non c’è possibilità) può anche significare eludere il corpo a favore della psiche, evidenziando una scissione che invero non esiste. Il medico di famiglia spesso ritiene che prescrivere SSRI in maniera sconsiderata significa favorire la medicalizzazione del mal di vivere… che la società tende invece ad esorcizzare .

Il medico filosofo sa anche che la psicoterapia non sempre dà risultati a breve e che non tutti sono disposti a sottoporvisi, mentre in altri casi risulta assai efficace, in particolar modo la psicoterapia cognitivo – comportamentale che ha le evidenze migliori. In definitiva, il medico di famiglia, conoscendo i limiti di ogni sapere, li usa tutti perché ciò che gli preme è la persona che ha di fronte che a lui si affida.
Purtroppo, però, in medicina si possono facilmente quantificare i costi, ma, se si assume il vissuto personale di un malato, i benefici sono poco quantificabili, anche se “le operazioni sostitutive della quantità sono, grazie alla modalità, ugualmente consistenti, perché non fanno riferimento ai valori delle variabili sul bisogno o sul dolore o sui vissuti come a degli oggetti, ma assumono espressioni linguistiche, come se sostituissero delle variabili…” (3). Tali concetti appaiono tuttavia assai difficili da capire, rispetto ai costi. Accade così che chi guarda l’operato del medico di famiglia preferisca volgere l’attenzione ai numeri della spesa, ai costi dei farmaci e non alla qualità di un operato , frutto di un lavoro “a tutto tondo”, di un impegno professionale di medico e di filosofo.

Il “medico di famiglia” e la prevenzione

Si parla tanto di prevenzione, ma si evita di dire che il medico di famiglia nella prevenzione della depressione rivolge un’attenzione costante, in tutte le fasi delicate della vita dei propri pazienti, anche indirettamente, ad esempio sostenendo agli anziani e i disagiati, attraverso la disponibilità quotidiana quale referente di aiuto, ma anche andando a colmare talvolta il vuoto di un ruolo che più che di competenza medica sarebbe di competenza sociale.

Inoltre, il medico filosofo ogni giorno combatte contro l”utopia immortalista” e le esasperazioni di medicalizzazione da essa generate, cercando di sostenere chi deve affrontare quello che qualcuno ha definito il “dolore perfetto” (10), quello umano, che fa parte della condizione esistenziale dell’uomo, e talora è anche più “dolce” di tanta angoscia e sofferenza generata dalla paura di sentirlo.


Investire sulla professionalità

“Il medico che si fa filosofo diventa simile a un dio” diceva Ippocrate. Ivan Cavicchi, nel suo ultimo volume “Sanità” (3), sostiene che le risorse professionali sono la condizione principale della compossibilità tra bisogni e risorse, e questa si ottiene caratterizzando il “quanto” con il “quale”.
Egli definisce le “qualità professionali”degli operatori come la disponibilità nei confronti dei cittadini e dei malati, la qualità attiva delle conoscenze, le qualità legate all’abilità, alla capacità di giudizio e di osservazione nonché di scelta delle soluzioni convenienti, la competenza modale, la sensibilità umana. “Un bravo operatore – egli sostiene alla fine del libro – è definito non dalla teoria economica né dalla ECM e nemmeno dalla governance, ma dalla dimensione culturale. Un operatore, per essere bravo deve essere esattamente come si definisce: un professionista”.
Probabilmente ci sarebbe bisogno di curare la qualità complessiva degli operatori, nel senso di investire di più sui “medici filosofi” e sul tipo di professionalità definita da Cavicchi, per riuscire a “dominare la stoltezza”. Purtroppo sono pochi i filosofi che resistono ai tanti, troppi tentativi di affogare la filosofia nella burocrazia, nel profitto, nel conflitto di interessi, nel risparmio. Quei pochi, per continuare a lavorare in scienza e coscienza, sono anch’essi a rischio….. di depressione!


Patrizia Iaccarino


Bibliografia

1) Ehrenberg A.: “La fatica di essere sé stessi”. Ed. Einaudi.

2) Galimberti U.: “La casa di psiche”. Ed. Feltrinelli.

3) Cavicchi I.: “Sanità” Un libro bianco per discutere. Ed. Dedalo.

4) Saraceno B.: “una vecchia novità”. Bollettino OMS di Salute Mentale e Neuroscienze 1998.

5) Gilbody S., Sheldon T., Wessely S.: “Should we screen for depression?”. BMJ, 2006, 332, (7548).

6) Lacasse J.R., Leo J.: “Serotonin and depression: a disconnect between the advertisements and the scientific literature”. Plos Medicine. Vol 2. Issue 12. Dicembre 2005.

7) Repubblica”- cronaca di Torino- 17 gennaio 2006.

8) AIPSI-MED: “Dietro la condanna dello psichiatra di Imola lo spettro del manicomio.” Comunicato stampa del 29 novembre 2005.

9) Asioli F., Berardi D., De Plato G.: “L’assistenza ai disturbi mentali”. Centro Scientifico Editore.

10) Riccarelli U.: “Il dolore perfetto”. Ed. Mondadori.

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