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Coronavirus: qualche riflessione sugli esami sierologici
Inserito il 21 aprile 2020 da admin. - infettivologia - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

Cosa dire al paziente che chiede di eseguire un esame sierologico per coronavirus? Alcuni spunti di riflessione.


In questi giorni si fa un gran parlare dei test rapidi sierologici per evidenziare la presenza di anticorpi IgG e IgM contro il SARS-CoV-2.

Prima di affrontare l'argomento può essere utile un breve richiamo di immunologia, per necessità molto sintetico e non esaustivo.

La risposta immunitaria, con cui l'organismo combatte le infezioni, è molto complessa. Possiamo dire, molto schematicamente, che essa si articola attraverso due vie.

La via cellulo-mediata prevede l'attivazione dei linfociti T che si possono differenziare a loro volta in vari sottogruppi, per esempio i linfociti natural killer o citotossici (riconoscono le cellule infettate e le uccidono facilitando così l'azione dei macrofagi), i linfociti T helper (hanno varie funzioni tra cui quella di produrre citochine che aiutano nella risposta immunitaria perchè regolano la produzione di linfociti T e B e dei fagociti), i linfociti suppressor (hanno azione di freno della risposta immunitaria quando l'antigene è inattivato), linfociti T memoria (utili quando l'organismo viene in contatto successivamente con lo stesso antigene).

La via umorale è costituita dai linfociti B che, una volta attivati dai linfociti T helper, producono anticorpi.
Gli anticorpi si distinguono schematicamente in:

a) opsonine (in genere IgG): si legano all'antigene facilitando l'azione per esempio dei fagociti

b) anticorpi neutralizzanti (in genere IgG e IgA): si legano all'antigene neutralizzandolo, impedendo per esempio ai virus di entrare nelle cellule

c) anticorpi attivanti il complemento (di solito IgM e IgG): il complemento ha azioni varie per esempio favorisce la lisi di batteri e cellule infette e la loro fagocitosi, regola l'attivazione dei linfociti B, innesca il processo infiammatorio, etc.

Ricordiamo infine che le IgM indicano una infezione in atto o molto recente mentre le IgG indicano infezione pregressa.


Veniamo ora ai test sierologici per il coronavirus. Attualmente i test a disposizione permettono di rilevare la presenza di IgG e di IgM diretti contro porzioni del coronavirus, in genere le glicoproteine "spike" con cui il virus entra nelle cellule.

Purtroppo però i test attualmente disponibili identificano le IgG e le IgM che dimostrano solo che il soggetto è venuto in contatto con il virus, ma non ci dicono se tali anticorpi sono protettivi e quindi danno immunità.
In realtà si dovrebbe avere a disposizione un test che identifica gli anticorpi neutralizzanti che sono quelli che impediscono l'entrata del virus nelle cellule. Questo permetterebbe di affermare ragionevolmente che quel soggetto è immune.

Per chiarire il concetto si pensi all'HIV e all'HCV: anche in queste infezioni i pazienti presentano anticorpi ma questi non sono protettivi. In altre parole nell'epatite C e
nell' AIDS la risposta immunitaria, pur presente, non permette al soggetto di guarire. E questo è probabilmente il motivo per cui, nonostante decenni di studi, non si è ancora preparato un vaccino per queste patologie.
Questo potrebbe spiegare anche l'osservazione, in Corea, di soggetti guariti dal coronavirus che si sono reinfettati.

Un'altra riflessione va fatta: per giudicare della bontà di un test si dovrebbero conoscere tre parametri: sensibilità, specificità e prevalenza della malattia.
In questo caso non conosciamo nessuno di questi fattori [1].

Supponiamo per ipotesi che la prevalenza dei contagiati sia il 10% della popolazione italiana (come sostengono alcuni esperti) e che il test abbia una sensibilità ed una specificità buona ma non elevatissima (per esempio del 90%).
Su 1000 soggetti ci saranno 900 non contagiati e 100 contagiati. Se applichiamo il test ai contagiati i veri positivi saranno 90; invece nei 900 non contagiati i falsi positivi saranno 90. In pratica ci saranno 180 test positivi, ma solo nella metà dei casi il risultato è esatto, mentre il resto sono falsi positivi.
Insomma, è come fare a "testa o croce".
A un risultato analogo si arriva se si ipotizza una prevalenza dell'1% e una sensibilità e specificità del 99%.

Vi è infine un altro punto critico: non è noto quanto una eventuale immunità possa durare.
Sulla durata dell'immunità nella SARS ci sono dati contrastanti: potrebbe essere di 18-24 mesi o di anni [2]. Per il SARS-CoV-2 non esistono studi, trattandosi di un virus che solo recentemente ha contagiato l'uomo.

Al paziente che chiede se vale la pena di effettuare il test sierologico rapido vanno quindi date queste informazioni:

1) un test positivo non significa necessariamente che si tratti di un positivo vero (non sappiamo per ora se il test possieda una reattività crociata per anticorpi contro altri coronavirus con cui il soggetto potrebbe essere venuto in contatto)

2) anche in caso di positivo vero non sappiamo se gli anticorpi ritrovati siano protettivi

3) non sappiamo quanto possa durare una eventuale immunità.

Queste considerazioni portano a concludere che gli attuali test sierologici per il coronavirus non sono idonei a fornire un "patentino di immunità", come si potrebbe erroneamente pensare. In futuro si vedrà.



Renato Rossi


Bibliografia

1. http://www.pillole.org/public/aspnuke/news.asp?id=7345

2. http://www.pillole.org/public/aspnuke/news.asp?id=7336





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