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Terapia dell'ipertensione nei pazienti diabetici:dati e prospettive
Inserito il 30 dicembre 1999 da admin. - cardiovascolare - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  



Jennifer B. Marks, MD, CDE

Non esistono più controversie riguardo i benefici effetti del controllo aggressivo della pressione arteriosa nei soggetti diabetici. E’ stato dimostrato che uno stretto controllo della pressione ritarda efficacemente lo sviluppo e la progressione delle complicanze diabetiche microvascolari, incluse la nefropatia e la retinopatia. Inoltre, estesi dati da un gran numero di studi hanno dimostrato che la riduzione del rischio cardiovascolare in seguito a questa terapia è maggiore nella popolazione diabetica che in quella non diabetica.
Ancora tuttavia infuriano molte controversie riguardo il migliore approccio terapeutico, dovute in parte a comunicazioni recenti di aumentati eventi cardiovascolari in pazienti diabetici trattati con calcioantagonisti, in parte alla persistente credenza che la terapia diuretica sia associata ad effetti nocivi nei pazienti diabetici. Questo articolo mette in evidenza le prove fornite da studi randomizzati che supportano l’importanza fondamentale del controllo pressorio nei pazienti diabetici, valuta la forza dei dati che fiancheggiano i riportati effetti negativi dei calcioantagonisti e gli effetti di altre classi di farmaci, e presenta un “rationale”, una base logica, per decidere un approccio farmacologico.
Obiettivi della terapia antiipertensiva: benefici cardiovascolari
La terapia antiipertensiva dovrebbe non solo ridurre la pressione arteriosa, dovrebbe ridurre il rischio di complicanze macrovascolari e microvascolari. Ma quale livello di riduzione è vantaggioso e ancora sicuro? Fino a poco tempo fa questo problema era circondato da molti dibattiti scientifici. Oggi tutte queste discussioni dovrebbero cessare, alla luce dei risultati di numerosi studi, tra cui il Systolic Hypertension in the Elderly Program (SHEP),il Systolic Hypertension in Europe study (Syst-Eur), e lo Hypertension Optimal Treatment (HOT).
Lo SHEP1 è stato uno studio randomizzato, in doppio cieco, controllato versus placebo, fatto per stabilire gli effetti di una terapia antiipertensiva a basso dosaggio con diuretici sulla frequenza di eventi cardiovascolari maggiori in pazienti anziani diabetici di tipo 2 e non diabetici affetti da ipertensione sistolica isolata. Lo studio includeva 4736 uomini e donne di età da 60 anni in su, di cui 583 con diabete di tipo 2, seguiti in modo prospettico per 5 anni. L’ipertensione sistolica isolata era definita come pressione sistolica > 160 mmHg e diastolica < 90 mmHg.
Il gruppo in trattamento attivo riceveva clortalidone (12.525 mg/die) e, se necessario, veniva aggiunta un’altra bassa dose di atenololo o reserpina per controllare la pressione. Da notare che solo il 46% dei pazienti erano controllati col solo diuretico. Il gruppo trattato con placebo poteva ricevere anche, se necessario, qualsiasi terapia antiipertensiva prescritta dai propri medici. Nel tempo, nei diabetici in trattamento attivo la pressione sistolica e quella diastolica si abbassarono mediamente rispettivamente di 9.8 e 2.2 mmHg, raggiungendo livelli di circa 145/70 mmHg.
I risultati del gruppo di diabetici in trattamento attivo hanno dimostrato riduzioni della frequenza per tutti gli eventi cardiovascolari maggiori (34%), per lo stroke fatale e non fatale (22%), per l’infarto miocardio fatale e non fatale (56%), e per la mortalità per tutte le cause (26%). Inoltre, non ci sono state prove, in questo studio, che l’utilizzo di un diuretico a dose relativamente bassa fosse associato ad aumento di mortalità. Questi risultati suggeriscono fortemente che un tale approccio può essere usato con sicurezza per il trattamento dell’ipertensione sistolica in una popolazione di anziani diabetici, e che livelli di pressione diastolica molto più bassi degli obiettivi che ci poniamo tradizionalmente sono sicuri e vantaggiosi.
Lo studio Syst-Eur ha confermato il riscontro che la terapia antiipertensiva può ridurre il rischio di complicanze cardiovascolari in pazienti anziani affetti da ipertensione sistolica isolata2. Questo studio ha utilizzato un calcioantagonista diidropiridinico a lunga durata d’azione, la nitrendipina, come terapia di prima scelta versus placebo. A seconda della necessità furono aggiunti o sostituiti enalapril o idroclorotiazide (12.5-25 mg/die), o l’opposto placebo. Quattrocentonovantadue soggetti (10.5% del totale) erano diabetici. Il follow-up medio è stato di due anni, e il gruppo in terapia raggiunse una media pressoria di circa 153/78 rispetto a 162/82 mmHg del gruppo placebo.
L’analisi successiva dei risultati3-5nel gruppo dei diabetici ha dimostrato nel gruppo trattato una riduzione della mortalità generale del 55%, della mortalità cardiovascolare del 76%, dello stroke fatale e non fatale del 73%, e di tutti gli eventi cardiovascolari del 69%. La riduzione degli stessi parametri nel gruppo di soggetti non diabetici fu rispettivamente del 6%, 13%, 38% e 26%. Il confronto dimostra un particolare beneficio nell’abbassamento della pressione sistolica nel gruppo di diabetici.
Il terzo studio che ha accertato l’associazione tra eventi cardiovascolari maggiori e livello di controllo della pressione arteriosa è stato lo HOT trial.6 Questo studio ha coinvolto 18790 soggetti, età 50-80 anni, che sono stati randomizzati su tre obbiettivi di pressione arteriosa diastolica: £90, £85 e £80 mmHg, e sono stati seguiti per una media di 3.8 anni. Di questi, 1501 (7.9%) erano diabetici.
Utilizzando un approccio terapeutico “a gradini”, i pazienti hanno iniziato con il calcioantagonista felodipina a 5 mg/die e in sequenza sono stati aggiunti un ACE-inibitore o un ß-bloccante, quindi è stata raddoppiata la dose di felodipina, poi è stato raddoppiato l’ACE-inibitore o il ß-bloccante e infine è stato aggiunto un diuretico, secondo necessità, allo scopo di raggiungere gli obbiettivi pressori prefissati. Le pressioni raggiunte in ogni gruppo sono state: 144/85 (gruppo £90 mmHg), 141/83 (gruppo £85 mmHg) e 140/81 (gruppo £80 mmHg), con considerevoli sovrapposizioni tra i gruppi. Per raggiungere le pressioni prefissate è stato necessario aggiungere un ACE-inibitore per il 49% dei pazienti e un ß-bloccante per il 28%. I risultati hanno dimostrato un chiaro beneficio dall’abbassamento della pressione arteriosa nei soggetti diabetici e nessuna prova di effetti negativi ai livelli più bassi (“curva J”). In tutti i pazienti c’è stata una riduzione della mortalità cardiovascolare (P = 0.005), ma nel gruppo £80 mmHg, rispetto al gruppo £90 mmHg, la riduzione è stata inferiore del 67% (P = 0.016). Gli eventi cardiovascolari maggiori compreso l’infarto miocardico silente sono stati ridottidel 36% (P = 0.045). Questi risultati significativi supportano un approccio aggressivo per abbassare la pressione arteriosa a 140/80 mmHg o meno negli individui diabetici.
Anche i risultati dello United Kingdom Prospective Diabetes Study (UKPDS)7-9dimostrano i benefici cardiovascolari del rigido controllo della pressione in una vasta popolazione di diabetici di tipo 2. La terapia antiipertensiva fu aggiunta nel 1988 a questo esperimento di gestione intensiva della glicemia, in quanto una grossa percentuale di soggetti diabetici erano ipertesi al momento dell’arruolamento. Lo studio ha coinvolto 1148 soggetti con pressione arteriosa >160/90 mmHg, che furono assegnati in modo casuale a un programma di controllo rigido (<150/80 mmHg) o meno rigido (<180/105 mmHg), utilizzando per il primo captopril (25-50 mg due volte al giorno) o atenololo (50-100 mg/die). Se necessario, si poteva aggiungere furosemide e/o nifedipina per raggiungere l’obiettivo pressorio. Le pressioni medie dei due gruppi dopo un follow-up medio di 8.4 anni furono rispettivamente 144/82 e 154/87 mmHg. Entrambi i farmaci furono ugualmente efficaci nel controllare la pressione arteriosa, ma il 29% dei pazienti richiese tre o più farmaci.

I risultati positivi del rigido controllo della pressione dimostrati da questo trial sono riassunti nella tabella che segue.

Esiti Riduzione del rischio Valore di P

Qualsiasi evento correlato al diabete 24% 0.0046
Morte correlata al diabete 32% 0.019
Infarto miocardico 21% 0.13
Ictus cerebrale 44% 0.013
Microangiopatia diabetica 37% 0.0092
Retinopatia al 2° stadio 34% 0.004
Riduzione dell’acutezza visiva 47% 0.004


Insieme i risultati di questi studi danno prove convincenti a favore di un controllo aggressivo della pressione arteriosa in soggetti diabetici e dimostrano due importanti scoperte: 1) anche piccole riduzioni della pressione arteriosa possono avere un grosso impatto sul rischio cardiovascolare, e 2) più bassa è, meglio è. Il fatto che questo secondo punto si applichi allo sviluppo delle complicanze diabetiche microangiopatiche è sostenuto da molti studi descritti sotto.
Obiettivi della terapia antiipertensiva: benefici microvascolari
Gli effetti renali di un buon controllo della pressione in pazienti diabetici sono ben stabiliti. Sia nel diabete di tipo 1 che nel diabete di tipo 2 un buon numero di studi ha dimostrato che abbassando la pressione arteriosa sistemica si rallenta la velocità di riduzione della funzione renale e si migliora la sopravvivenza.
In uno studio ormai classico, Parving inizialmente osservò una significativa riduzione del volume del filtrato glomerulare (VFG) che si accompagnava ad un aumento della pressione arteriosa e dell’escrezione di albumina in 18 pazienti diabetici.10Dopo aver iniziato un’efficace terapia antiipertensiva con ß-bloccanti, diuretici, idralazina e, successivamente, ACE-inibitori, egli seguì questi pazienti e 13 soggetti di controllo non trattati per altri tre anni. Egli dimostrò che il controllo della pressione arteriosa diminuiva l’escrezione di albumina del 50% e la velocità di riduzione del VFG da circa 0.9 ml/min/mese a 0.10-0.29 ml/min/mese.11,12
Altri studi hanno anche confermato che abbassando la pressione in soggetti ipertesi con diabete di tipo 2 si riduce la progressione della microalbuminuria e la velocità di riduzione della funzione renale indipendentemente dal farmaco scelto. In uno studio a tre anni, il calo del VFG in 44 soggetti diabetici ipertesi, di cui 18 con microalbuminuria, randomizzati a ricevere o un ACE-inibitore o un calcioantagonista diidropiridinico a lento rilascio per ridurre la pressione arteriosa ad un livello prefissato di <140/85 mmHg, fu significativamente e inversamente proporzionale alla riduzione della pressione arteriosa media (P <0.0001).13
Numerosi studi hanno dimostrato che anche in soggetti diabetici normotesi l’abbassamento della pressione arteriosa dà chiari benefici renali. In uno studio in doppio cieco, 92 pazienti con sistolica £140 e diastolica £90 mmHg, diabete di tipo 1 e microalbuminuria furono randomizzati a ricevere un ACE-inibitore, un calcioantagonista diidropiridinico a lunga durata d’azione, o placebo. Chiari benefici furono osservati in entrambi i gruppi in trattamento attivo nel ritardare la progressione a macroalbuminuria in tre anni.14 Risultati sovrapponibili sono stati osservati nel North American Microalbuminuria Study (NAMS) confrontando captopril con placebo per due anni in una popolazione similare.15 Infine, uno studio a 7 anni in 94 pazienti diabetici di tipo 2 che erano normotesi (£140/90 mmHg) ma microalbuminurici ha dimostrato stabilizzazione della funzione renale nel gruppo trattato e progressione a proteinuria nel gruppo placebo.16 Poiché la proteinuria predice fortemente la progressione verso l’insufficienza renale, questi studi sostengono il vantaggio di abbassare la pressione arteriosa anche al di sotto dei livelli convenzionali nei soggetti diabetici.
Qualche evidenza supporta pure l’effetto del buon controllo pressorio nel prevenire lo sviluppo e la progressione della retinopatia. Del tutto recentemente, i risultati dello UKPDS hanno dimostrato una riduzione del 34% nella progressione della retinopatia al 2° stadio ed una riduzione del 47% delrischio di riduzione dell’acutezza visiva nel gruppo sotto rigido controllo pressorio confrontato col gruppo sotto controllo meno rigido.7
I risultati di questi studi forniscono inoltre ulteriori prove di efficacia per il controllo aggressivo della pressione arteriosa nei soggetti diabetici al di sotto dei livelli che tradizionalmente sono stati considerati ideali per un’efficace prevenzione delle complicanze microvascolari.
Esiste un farmaco antiipertensivo ideale per l’uso nel diabete?
Recentemente si è posta una crescente attenzione a quale sia il farmaco antiipertensivo migliore da prescrivere nei pazienti diabetici. Alcuni studi hanno rivendicato benefici microvascolari ed effetti cardioprotettivi specifici per quegli agenti (e.g., ACE-inibitori) al di là di quanto ci si sarebbe aspettato dall’abbassamento della pressione in se stessa. Interessanti sono alcuni rapporti che hanno sollevato problemi riguardo potenziali effetti negativi di altri farmaci (e.g., calcioantagonisti), particolarmente sul rischio cardiovascolare. Poiché la causa primaria di morte in soggetti diabetici sono le malattie cardiovascolari, l’impatto potenziale di un dato farmaco su questo rischio deve essere valutato attentamente. Sono anche preferibili farmaci antiipertensivi che migliorano (o non peggiorano) la resistenza insulinica, la dislipidemia, il controllo glicemico e/o la nefropatia. I soggetti diabetici sono più soggetti ad avere disfunzioni sessuali, ipoglicemia e ipotensione ortostatica, sicché bisognerebbe fare attenzione a scegliere un farmaco che non peggiori nessuna di queste condizioni.
Una quantità di studi clinici hanno dimostrato che i diuretici a basse dosi sono efficaci nei pazienti diabetici, senza effetti negativi significativi sul controllo glicemico o sul profilo lipidico. Lo studio SHEP discusso sopra, per esempio, che ha messo a confronto un trattamento attivo con clortalidone e il placebo, ha dimostrato che non ci sono prove di aumentata mortalità in seguito all’uso di diuretici a dose relativamente bassa, e che c’è un beneficio riguardo la riduzione della mortalità cardiovascolare.1 I risultati del Multicenter Isradipine Diuretic Atherosclerosis Study (MIDAS), che ha utilizzato idroclorotiazide a basso dosaggio come uno dei suoi bracci terapeutici in soggetti diabetici e non diabetici, non ha dimostrato differenze tra i gruppi in trattamento nell’obiettivo primario, il ritmo di progressione dell’ispessimento medio-intimale della carotide, in un periodo di tre anni.17
Spesso sono stati posti dei dubbi riguardo l’uso di ß-bloccanti in pazienti diabetici a causa di timori di ipoglicemia, potenziali effetti dannosi sul controllo glicemico e lipidico, e rischio cardiovascolare.Prova stringente del contrario viene dallo UKPDS, che ha messo a confronto il ß-bloccante atenololo con l’ACE-inibitore captopril. Entrambi i farmaci sono stati ugualmente efficaci nel controllare la pressione arteriosa, e non sono state riscontrate differenze negli end point cardiovascolari, compreso l’incidenza di infarto miocardio, ictus cerebrale o insufficienza cardiaca congestizia. Inoltre non sono state riscontrate differenze nell’incidenza di ipoglicemia. Tuttavia, dopo otto anni dello studio, per l’81% del gruppo atenololo contro il 71% del gruppo captopril è stato necessario aggiungere un altro farmaco ipoglicemizzante per controllare la glicemia.18 I soggetti con atenololo erano aumentati di peso e presentavano un incremento lievemente maggiore nella concentrazione di emoglobina glicata, ma ciò non intaccò gli esiti degli end point clinici.
Riassumendo, i risultati degli studi SHEP, Syst-Eur, HOT, MIDAS e UKPDS sostengono tutti la sicurezza e l’efficacia dell’uso di diuretici a basse dosi e di ß-bloccanti nei soggetti diabetici. Questi risultati suggeriscono in modo importante che la riduzione della pressione arteriosa per se stessa può essere un fattore più critico nel prevenire le complicanze diabetiche che non gli agentiutilizzati.
I calcioantagonisti hanno potenziali effetti nocivi nei pazienti diabetici?
Di recente si dibatte molto sulla letteratura scientifica riguardo i risultati di alcuni studi che hanno suggerito che i calcioantagonisti potrebbero essere associati ad un aumento degli eventi cardiovascolari nei soggetti diabetici. I primi allarmi furono lanciati dai trials EPESE (Established Populations for Epidemiologic Studies of the Elderly) e MIDAS. EPESE esaminò la mortalità per tutte le cause in 906 anziani ipertesi, il 19.2% (342) dei quali erano diabetici, confrontando gli esiti clinici di coloro che assumevano ß-bloccanti, verapamil, diltiazem, nifedipina a breve durata d’azione, o ACE-inibitori. I risultati dimostrarono che l’uso di nifedipina era associato ad una diminuita sopravvivenza in questa popolazione.19
E’ stato suggerito che gli effetti negativi osservati in questo studio potrebbero essere legati alla farmacocinetica del calcioantagonista a breve durata d’azione, 20,21 e ciò sembra verosimile. I risultati del MIDAS, che dimostrano un aumento di angina e di eventi cardiovascolari nel gruppo in terapia con calcioantagonista rispetto al gruppo in terapia con diuretico, ulteriorrmente suggeriscono che questi timori possono riversarsi sull’uso di calcioantagonisti a durata d’azione intermedia.17,22,23 E’ stata pure suggerita un’ipotesi di “aumentata suscettibilità”, ossia, che uno scarso controllo glicemico può abbassare la soglia di rischio per eventi cardiovascolari nei soggetti in terapia con calcioantagonisti. 22,24,25
Meritano un’attenta valutazione due studi recenti che confrontano calcioantagonisti diidropiridinici a lunga durata d’azione con altre scelte terapeutiche, il FACET (Fosinopril Versus Amlodipine Cardiovascular Events Randomized Trial) e lo ABCD (Appropriate Blood Pressure Control in Diabetes). Il FACET è un trial prospettico, in aperto, randomizzato, progettato per valutare le differenze dovute alla terapia nei lipidi sierici e nel controllo glicemico in pazienti ipertesi affetti da diabete di tipo 2.26 In prospezione gli eventi cardiovascolari designati erano esiti secondari. Lo studio ha coinvolto 380 pazienti che furono assegnati in modo casuale ad un trattamento iniziale con fosinopril o amlodipina. Se la pressione non era controllata adeguatamente, veniva aggiunto l’altro farmaco, sicché, alla fine dello studio, il 30.7% del gruppo fosinopril stava assumendo anche amlodipina, e il 26.2 del gruppo amlodipina stava assumento anche fosinopril, con analisi fatta sulla basa della “intenzione di trattare”. I ß-bloccanti erano assunti dal 10.5% del gruppo fosinopril e dal 9.5% del gruppo amlodipina, e i diuretici dal 29% e dal 34.5% di ogni gruppo, rispettivamente.
Gli obiettivi per la pressione arteriosa sistolica e per la diastolica furono raggiunti in misura uguale da ogni gruppo di trattamento, ma la pressione sistolica fu di 4 mmHg più bassa nel gruppo amlodipina. I risultati dopo 3.5 anni hanno dimostrato un 50% di minore incidenza di eventi cardiovascolari maggiori nel gruppo fosinopril, compresi infarto miocardio acuto, ictus cerebrale e angina complessa ospedalizzata, nonostante nessuna differenza nei lipidi sierici o nel controllo glicemico.
Questi risultati, suggeriscono gli autori, potrebbero essere dovuti o ad uno specifico effetto benefico degli ACE-inibitori o ad un effetto dannoso dei calcioantagonisti. Il primo è più plausibile, in quanto il rischio più basso, secondo le analisi successive, è stato nel gruppo di pazienti (circa il 30%) che alla fine dello studio assumeva entrambi i farmaci.27 Non ci sono state differenze significative tra i gruppi dello studio per eventi cardiovascolari singoli, e la mortalità per tutte le cause è stata la stessa in entrambi i gruppi di farmaci. Solo quando sono stati raggruppati insieme ogni evento ha raggiunto la significatività statistica.
Con soli 380 soggetti diabetici coinvolti, lo studio non ha la potenza per paragonare gli effetti dei due farmaci sugli eventi cardiovascolari, che erano esiti secondari dello studio. Una critica ulteriore a questo studio comprende il suo disegno in aperto e il fatto che gli eventi furono documentati chiedendo ai pazienti se tali eventi si erano verificati. E’ stato anche suggerito che le conclusioni dello studio sono state viziate dal fatto che non è stata data alcuna informazione circa potenziali differenze iniziali tra i gruppi in termini di fattori di rischio cardiovascolare come la storia familiare, l’ipertrofia ventricolare sinistra, o la neuropatia autonomica. Inoltre, l’escrezione urinaria media di albumina era significativamente più elevata, all’inizio, nel gruppo amlodipina, il che suggerisce che questo gruppo potrebbe aver avuto un aumentato rischio di base per sviluppo di malattie cardiovascolari, dato il valore predittivo di questo reperto per morbilità cardiovascolare.28 Questi dati sottolineano anche le pecche intimamente associate con l’uso di endpoints surrogati (e.g., lipidi, glucosio, pressione arteriosa) invece di esiti clinici reali.
Il trial ABCD29,30 è uno studio prospettico randomizzato, progettato per testare l’ipotesi primaria che un controllo intensivo della pressione arteriosa (pressione diastolica prefissa 75 mmHg) ridurrebbe o eviterebbe la progressione di eventi microvascolari o cardiovascolari in soggetti diabetici di tipo 2,rispetto ad un controllo della pressione moderato (pressione diastolica prefissa 80-89 mmHg). Un’ipotesi secondaria era che il calcioantagonista diidropiridinico a lunga durata d’azione nisoldipina avrebbe effetti equivalenti all’ACE-inibitore enalapril.
Lo studio ha coinvolto 950 soggetti che sono stati seguiti per 5 anni, di cui 470 con ipertensione, definita come pressione diastolica di base ³90 mmHg. Il progetto dello studio consentiva l’aggiunta in aperto di un secondo agente, idroclorotiazide o metoprololo, nel caso il singolo agente non controllasse adeguatamente la pressione.
I risultati nel sottogruppo degli ipertesi dimostrarono un controllo pressorio similare e nessuna differenza nel controllo lipidico o glicemico, ma l’analisi dei dati degli end point secondari, ossia incidenza di infarto miocardio fatale e non fatale, rivelò un’incidenza significativamente più alta nel gruppo nisoldipina, tale che questo braccio dello studio fu interrotto dal Data Safety Monitoring Group. Tali differenze non furono viste nel sottogruppo dei normotesi.
Viene fuori nuovamente il problema: i risultati sono dovuti ad un effetto favorevole degli ACE-inibitori nei pazienti diabetici, o ad un effetto dannoso dei calcioantagonisti? Una pecca nella conclusione che i calcioantagonisti siano dannosi sta nel fatto che lo studio non è stato progettato e non ha la forza per testare gli effetti di un farmaco rispetto all’altro sugli esiti cardiovascolari, in quanto questo era solo un end point secondario dello studio. Ancora, un numero maggiore di pazienti nel gruppo ACE-inibitori era in terapia anche con ß-bloccanti e diuretici, ottenendo possibilmente un beneficio dalla combinazione di terapie o da effetti vantaggiosi propri di ognuna di queste classi di farmaci sulla morbilità cardiovascolare. Inoltre, più pazienti nel gruppo calcioantagonisti sospese il farmaco dello studio. Non sono stati forniti dati sulla microalbuminuria o sull’uso di aspirina all’inizio dello studio. Infine, per motivi etici, né il FACET né l’ABCD hanno incluso un gruppo placebo, ma ciò non consente di concludere che i calcioantagonisti siano dannosi.
Una interpretazione valida dei risultati di questi studi è che la combinazione di ACE-inibitori più calcioantagonisti diidropiridinici fornisce i migliori risultati per pazienti con diabete di tipo 2 e ipertensione. E, in effetti, le evidenze da altri studi che hanno utilizzato calcioantagonisti diidropiridinici, comprese le analisi a posteriori dei trials Syst-Eur e HOT, suggeriscono che non ci fossero effetti nocivi dall’utilizzo di calcioantagonisti nei soggetti diabetici in tutti e due questi studi. I risultati del Syst-Eur, in effetti, suggerivano un particolare beneficio nei soggetti diabetici derivante dalla terapia di prima linea con il calcioantagonista diidropiridinico nitrendipina. Inoltre, se i risultati nei pazienti trattati con calcioantagonisti negli studi FACET e ABCD sono posti in un’ottica di confronto dei tassi di infarto miocardio in popolazioni similari con diabete di tipo 2 in altri trials pubblicati (randomizzati e storici) si vede che la frequenza di infarti miocardici non è diversa in modo significativo.30
Gli ACE-inibitori hanno effetti benefici specifici sulla microangiopatia?
Una quantità di studi clinici hanno esaminato l’ipotesi che gli ACE-inibitori producano effetti benefici sulle complicanze microangiopatiche diabetiche, particolarmente la nefropatia, se confrontati con altri agenti. In uno studio a tre anni, randomizzato, in doppio cieco, su 409 pazienti diabetici di tipo 2 con ipertensione, proteinuria e insufficienza renale moderata, la terapia con captopril ha dimostrato di ridurre il tempo di raddioppamento della creatinina del 48% e di ridurre gli end points combinati di morte, dialisi e trapianto renale del 50% in confronto al trattamento con placebo, nonostante un controllo similare della pressione arteriosa in entrambi i gruppi.31
Vengono descritti quattro studi di confronto tra ACE-inibitori e calcioantagonisti diidropiridinici a lunga durata d’azione. Il Melbourne Diabetic Nephropathy Study (MDNS) ha randomizzato pazienti ipertesi diabetici di tipo 1 e tipo 2 ad un trattamento con perindopril o nifedipina, titolati per controllare la pressione arteriosa, e non ha riscontrato differenze tra i gruppi nel ritmo di diminuzione del VFG ad un anno.32 Risultati simili sono stati riportati un un altro studio su 44 pazienti con diabete di tipo 2 in terapia con cilazapril o amlodipina.13 Un altro studio su 52 pazienti diabetici di tipo 2 con ipertensione e nefropatia seguiti per 5 anni, in terapia con atenololo, lisinopril, verapamil o diltiazem ha riscontrato che gli ACE-inibitori e i calcioantagonisti ritardano ugualmente la diminuzione della creatinina clearance in confronto al ß-bloccante.33 Al contrario, tuttavia, un altro studio ha riportato una riduzione minore del VFG con nisoldipina confrontata con lisinopril in 49 soggetti diabetici di tipo 1 ipertesi seguiti per un anno.34
I risultati del recente UKPDS hanno dimostrato che captopril ed atenololo erano ugualmente efficaci nel ridurre gli end points microvascolari, compresi la progressione della retinopatia e lo sviluppo di proteinuria.18
Quindi, la possibilità che effetti benefici specifici degli ACE-inibitori ritardino lo sviluppo di nefropatia è supportata in parte, ma non totalmente, dagli studi clinici. Un beneficio specifico può essere prodotto dall’uso degli ACE-inibitori in alcuni pazienti diabetici, ma il punto critico è che la pressione arteriosa dovrebbe essere controllata in modo aggressivo, e ciò può essere ottenuto in modo appropriato con una varietà di strategie, richiedendo in molti casi combinazioni di farmaci. Stanno venendo fuori dati sugli effetti degli antagonisti dei recettori per l’angiotensina II (AIIRAs) nella nefropatia35 e degli ACE-inibitori nella retinopatia36, e cominciano a suggerire effetti vantaggiosi. Aspettiamo i risultati dello Irbesartan Diabetic Nephropaty Trial (IDNT) e del Losartan Renal Protection Study (RENAAL), che stanno esaminando gli effetti degli AIIRAs sulla progressione della nefropatia nel diabete di tipo 2.
Prospettiva e raccomandazioni
L’abbassamento aggressivo della pressione arteriosa è chiaramente vantaggioso nei pazienti diabetici ipertesi. Un obiettivo preciso rimane determinato dalla malattia, ma diversi consensus panels (=commissioni di consenso) nazionali di esperti, compresi quello della American Diabetes Association,37 hanno raccomandato che l’obiettivo di riduzione della pressione arteriosa sia di <130/85 mmHg. Le raccomandazioni correnti della Joint National Committee on Prevention, Detection, Evaluation, and Treatment of High Blood Pressure (JNC VI)38 sono in accordo con ciò, e sostengono ulteriormente l’uso o di un ACE-inibitore o di un calcioantagonista diidropiridinico come terapia di prima scelta nel diabete. La riduzione della pressione arteriosa in se stessa sembra essere il fattore più critico nel prevenire le complicanze diabetiche, piuttosto che gli agenti specificamente utilizzati.
C’è attesa per i risultati futuri dello studio ALLHAT, in quanto possono venire nuove informazioni da questo confronto faccia a faccia tra un calcioantagonista diidropiridinico, un diuretico, un ACE-inibitore e un ß-bloccante come terapie di inizio in pazienti diabetici e non diabetici.39
Considerazioni sui costi suggerirebbero che l’utilizzo di diuretici, ß-bloccanti e captopril sarebbe una saggia decisione, e il rationale per l’efficacia di ognuno di questi farmaci è ben stabilito. Tuttavia, è improbabile che obiettivi aggressivi siano raggiunti con una monoterapia nella maggior parte dei pazienti, come dimostrato da molti studi, sicché solitamente saranno necessarie combinazioni di farmaci per raggiungere il miglior controllo coi minori effetti collaterali. In effetti, il numero medio di farmaci necessari per ottenere il controllo pressorio in molti studi clinici è di 3.4.40
Pertanto, sulla base di una attenta disamina dei dati attuali dagli studi disponibili, oggi il mio approccio alla gestione dell’ipertensione è una terapia di inizio con un ACE-inibitore, seguito da un calcioantagonista diidropiridinico, quindi un diuretico a basso dosaggio e/o un ß-bloccante aggiunti secondo necessità per raggiungere l’obiettivo fondamentale di un rigido controllo della pressione arteriosa.

References

1Curb JD, Pressel SL, Cutler JA, Savage PJ, Applegate WB, Black H, Camel G, Davis BR, Frost PH, Gonzalez N, Guthrie G, Oberman A, Rutan GH, Stamler J, for the Systolic Hypertension in the Elderly Program Cooperative research Group: Effect of diuretic-based antihypertensive treatment on cardiovascular disease risk in older diabetic patients with isolated systolic hypertension. JAMA 276:1886-92, 1996.
2Staessen JA, Fagard R, Thijs L, Celis H, Arabidze GG, Birkenhager WH, Bulpitt CJ, de Leeuw PW, Dollery CT, Fletcher AE, Forette F, Leonetti G, Nachev C, O'Brien ET, Rosenfeld J, Rodicio JL, Tuomilehto J, Zanchetti A: Randomized double-blind comparison of placebo and active treatment for older patients with isolated systolic hypertension. Lancet 350:750-64, 1997.
3Staessen JA, Thijs L, Gasowski J, Celis H, Fagard RH, for the Systolic Hypertension in Europe (Syst-Eur) Trial Investigators: Treatment of isolated systolic hypertension in the elderly: further evidence from the Systolic Hypertension in Europe (Syst-Eur) Trial. Am J Cardiol 82:20-22R, 1998.
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5Staessen JA, Fagard R, Celis H, Birkenhager WH, Bulpitt CJ, de Leeuw PW, Fletcher AE, Barbarskiene M-R, Forette F, Kocemba J, Laks T, Leonetti G, Nachev C, Petrie JC, Tuomilehto J, Vanhanen H, Webster J, Yodfat Y, Zanchetti A, for the Systolic Hypertension in Europe (Syst-Eur) Trial Investigators: Subgroup and per-protocol analysis of the randomized European Trial on isolated systolic hypertension in the elderly. Arch Intern Med 158:1681-91, 1998.
6Hansson L, Zanchetti A, Carruthers SG, Dahlof B, Elmfeldt D, Julius S, Menard J, Rahn KH, Wedel H, Westerling S, for the HOT Study Group: Effects of intensive blood-pressure lowering and low-dose aspirin in patients with hypertension: principal results of the Hypertension Optimal Treatment (HOT) randomized trial. Lancet 351:1755-62, 1998.
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Jennifer B. Marks, MD, CDE, is an associate professor of medicine in the Division of Endocrinology at the University of Miami School of Medicine, in Florida.

Note of disclosure: Dr. Marks has received honoraria from Smith Kline Beecham, Bristol Myers Squibb, Pfizer, Hoechst Marion Roussel, Roche, and Schering and has received grant support from Smith Kline Beecham and Pfizer. These companies manufacture drugs for the treatment of hypertension.

Diabetes Care, novembre 1999
(Traduzione dall'originale inglese di Amedeo Schipani)


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