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Impatto psicologico sul paziente delle malattie gravi
Inserito il 26 maggio 2025 da admin. - psichiatria_psicologia - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

Le conseguenze psicologiche della diagnosi di una malattia grave dovrebbero essere considerate al pari dei sintomi fisici.

La diagnosi di una malattia grave rappresenta per il paziente un evento traumatico, che scuote profondamente l’identità, le speranze e i progetti per il futuro e le relazioni. Tumori, malattie neurodegenerative, patologie croniche invalidanti: tutte rappresentano non solo una sfida clinica, ma anche psicologica che può condizionare l’andamento della cura. Per questo, il medico ha un ruolo fondamentale nell’accompagnamento emotivo del paziente lungo il percorso terapeutico.

Il modello di Kübler-Ross sottolinea come il paziente di fronte alla diagnosi di una malattia grave, attraversi cinque fasi:
1) shock/negazione,
2) rabbia,
3) contrattazione,
4) depressione,
5) accettazione.

Però non tutti i pazienti attraversano queste fasi linearmente, e alcuni possono bloccarsi in una fase per lunghi periodi.

Tra le risposte più comuni vi sono ansia intensa, insonnia, crisi di pianto, depressione reattiva, e nei casi più gravi, ideazione suicidaria. Molti pazienti riferiscono di “non riconoscersi più”, di aver perso il controllo sulla propria vita o di sentirsi un peso per i familiari. La malattia può diventare un’esperienza che isola, per esempio se accompagnata da cambiamenti corporei importanti e, talora, ritenuti degradanti (incontinenza sfinteriale, incapacità a compiere gli atti quotidiani della vita, ecc.)

Non tutti reagiscono nello stesso modo. Alcuni fattori influenzano il tipo e la qualità della risposta psicologica: l'età e la fase di vita (es. una diagnosi oncologica in giovane età può avere un impatto diverso rispetto alla terza età), la personalità, la capacità di adattamento (coping), il supporto familiare e sociale.
Importa molto anche il modo in cui viene comunicata la diagnosi: il "come" conta tanto quanto il "cosa" viene detto. Così una comunicazione brusca, impersonale o troppo tecnica può aumentare lo smarrimento e la sofferenza. Invece, una comunicazione empatica e calibrata sulle esigenze del paziente favorisce l’elaborazione della notizia e rafforza l’alleanza terapeutica.
Infatti il medico è spesso il primo riferimento emotivo dopo la diagnosi. Ovviamente nessuno chiede al medico (che sia il curante o lo specialista) di vestire gli abiti dello psicologo, ma di comportarsi con compassione, di saper riconoscere segnali di sofferenza profonda e orientare il paziente, quando necessario, a un supporto specialistico. L’ascolto, anche breve, ha un valore terapeutico in sé. Saper dare importanza al dolore psichico del paziente, rispondere con empatia e offrire rassicurazioni realistiche può migliorare la compliance, ridurre l’angoscia e favorire una maggiore partecipazione attiva alla cura.

Possiamo suggerire alcune semplici strategie che possono essere adottate dal medico:
1) dare informazioni chiare e comprensibili, riducendo la sensazione di impotenza,
2) favorire la narrazione della malattia invitando il paziente a parlare ed esprimere quello che prova,
3) fissare piccoli obiettivi, che restituiscano senso di controllo,
4) aiutare il mantenimento di attività e ruoli compatibili con la condizione,
5) non esitare a ricorrere ai farmaci (ansiolitici, ipnotici, antidepressivi) se necessario.

Lo psicologo clinico rappresenta una risorsa preziosa perché può aiutare il paziente a elaborare le emozioni legate alla diagnosi, rafforzare le strategie di coping, sostenere la comunicazione con i familiari e prevenire il rischio di disturbi psicopatologici, come la depressione maggiore o i disturbi d’ansia.

Il medico curante dovrebbe valutare l’invio allo psicologo nei seguenti casi: sofferenza psicologica persistente nonostante il supporto medico e familiare, presenza di sintomi come apatia marcata, insonnia resistente, attacchi di panico, ritiro sociale o pensieri di morte, difficoltà nel comprendere o accettare il piano terapeutico, carico familiare eccessivo, conflitti relazionali o scarso supporto sociale.
Può essere valutato anche un intervento precoce – non necessariamente in presenza di una patologia psichica – che potrebbe possedere un effetto preventivo, promuovendo l’adattamento e migliorando la qualità della vita.

Possiamo concludere che l’aspetto psicologico della malattia dovrebbe essere considerato una parte integrante dell’esperienza del paziente al pari dei sintomi corporei. Prenderlo in carico, anche solo attraverso uno sguardo empatico e una comunicazione attenta, è un atto clinico che può fare la differenza. Il medico che sa ascoltare, oltre che curare, accompagna il paziente in modo più completo e umano nel percorso di cura.


Renato Rossi


Bibliografia

Chochinov HM. Dignity and the essence of medicine: the A, B, C, and D of dignity conserving care. BMJ. 2007 Jul 28;335(7612):184-7. doi: 10.1136/bmj.39244.650926.47. PMID: 17656543; PMCID: PMC1934489.

Kübler-Ross, E. (1969). On Death and Dying. Macmillan. ISBN-10: 002089130X

Osborn RL, Demoncada AC, Feuerstein M. Psychosocial interventions for depression, anxiety, and quality of life in cancer survivors: meta-analyses. Int J Psychiatry Med. 2006;36(1):13-34. doi: 10.2190/EUFN-RV1K-Y3TR-FK0L. PMID: 16927576.


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