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Il Lebbrosario di Bombay

Data : 05 gennaio 2005
Autore : admin

Pagina: 1 - i santi non sono solo in cielo

Quando l’amico che è con me la chiama Suor Mirtilla sorride.
In convento l'avevano chiamata Suor Bertilla.
"Nemmeno a me è piaciuto quel nome, ma qualcuno me l’ha dato e l’ho tenuto".
Ha ancora quel sorriso tipico della razza bergamasca, così aperto con gli occhi furbi che ammiccano ben vivi.
Ci da il benvenuto scalza, col suo tipico vestito grigio sgualcito e svolazzante.
La troviamo nel Lebbrosario di Bombay (oggi Mumbay) circondata da un nugolo di ragazzini vocianti che rincorrono una palla.
E lei li lascia fare anche quando la assalgono, l’abbracciano, la assordano.
Sembrano bimbi normali a prima vista, ma, ad uno sguardo più attendo, si notano sui visi le tipiche macchie della lebbra che li ha aggrediti, complici gli stenti e la povertà endemica che caratterizzano queste zone.
Un bell’ospedaletto, non c’è che dire, tirato su, giorno dopo giorno, con l’aiuto delle persone di buona volontà che contribuiscono, qui li chiamano sponsor, alla vita di questa istituzione.
Qui si ricovera qualsiasi persona che porti in se il terribile germe della lebbra.
Non si guarda in faccia a nessuno, a qualsiasi casta e religione appartenga.
Quasi tutti sono Indu. "Pensi che abbiamo un solo cristiano…" aggiunge Suor Bertilla. Si comprende anche troppo bene che in quei disgraziati guarda solo all’individuo come "persona", come figli dello stesso Dio.
Sicuramente, al di là della vocazione, questa donna, già operaia al filatoio in quel di Bergamo, deve essere stata contagiata da Madre Teresa di Calcutta che non solo ha conosciuto, ma con la quale ha diviso il lavoro e la gioia di servire il più povero.
Si alza alle cinque e mezza del mattino e si corica a mezzanotte e, troppe volte, si addormenta sul tavolo del suo studiolo.
E’ un’esperienza fantastica e drammatica visitare il lebbrosario, un’emozione non da poco vedere quelle suorine in sari rosa che si affannano a seguire gli ammalati, incuranti delle ore e della fatica. Nei tre giorni di permanenza fra i lebbrosi abbiamo letteralmente sconvolto quest’isola quieta in cui i giorni rincorrono altri giorni tutti uguali.
Abbiamo noleggiato un cavallo e, a turno, gli abbiamo messo in groppa, per un giro attorno all’ospedale, i piccoli ammalati.
E che dire dei loro volti radiosi alla vista del sacco dei giocattoli?
Basta poco davvero a strappare un sorriso, un sorriso di cui siamo fieri e che dimostra chiaramente la più innocente e profonda gratitudine per aver loro regalato un giorno diverso.
E poi ci sono i grandi con le loro piaghe necrotiche e purulente ancora aperte e la piccola sala operatoria in cui il dottor Salafia affonda i suoi ferri nelle lesioni profonde delle mani e dei piedi orrendamente deformate dal male.
Venendo qui abbiamo constatato cos’è la forza della fede di queste suore, altrimenti l’avremmo chiamata pazzia.
Venendo qui abbiamo constatato come, guardando negli occhi i loro ammalati, riescano a scorgere quelli del Cristo.
Venendo qui abbiamo constatato che i Santi non sono solo in cielo.
Camillo Vittici




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