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IL MMG può richiedere il pagamento della visita domiciliare se il soggetto è trasferibile


Categoria : professione
Data : 08 dicembre 2008
Autore : admin

Intestazione :

La cassazione ha sentenziato che non commette reato il medico di medicina generale che richiede il pagamento diretto all'assistito che non sia intrasferibile e che richieda una visita a domicilio.



Testo :

Si tratta di sentenza non nuovissima, ma che si ritiene utile riproporre nel testo integrale trattandosi di circostanze ricorrenti.



Con sentenza del 21 dicembre 2000 il Tribunale di Milano dichiarò C. F. colpevole del reato di cui all'articolo 318, secondo comma Cp perché in qualità di medico convenzionato col Ssn riceveva dalla congiunta di una giovane paziente, dopo una visita a domicilio, retribuzione di lire 100.000, non dovuta, rientrando detta prestazione tra le attività retribuite col sistema a quota fissa; lo condannava pertanto alla pena di giorni venti di reclusione, con conversione nella corrispondente pena pecuniaria.

Secondo la versione della denunziante G. E. - accettata dal Tribunale per una serie di considerazioni - la stessa aveva la sera precedente telefonato al medico perché la figlia stava male con febbre alta e, a precisa richiesta del dottor C.F. di accompagnarla presso il suo studio, oppose la intrasportabilità proprio a causa della febbre, insistendo per visita domiciliare urgente, visita rimandata dal medico al giorno successivo; in quest'ultima circostanza fu presente Z. R., nonna della ragazza, la quale nel riaccompagnare il dottore alla porta chiese a puro titolo di cortesia “se doveva qualcosa”, ricevendone la richiesta delle centomila lire, somma che la donna, sebbene meravigliata, versò senza replicare.

Ricorre per cassazione l’imputato, lamentando:

inosservanza o erronea applicazione di legge penale o extrapenale: essendo la visita domiciliare in regime di convenzione subordinata - a sensi dell’articolo 33 della convenzione coi medici di medicina generale - alla sola condizione della intrasportabilità dell’ammalato, è dei tutto fuorviante la indagine svolta dal Tribunale circa la espressa pattuizione o meno di una visita di quel tipo e delle relative condizioni; così come è ultroneo l'accertamento circa la urgenza o meno dell'intervento sanitario (il dottor Carelli, del resto, aveva, già attraverso le indicazioni telefoniche, potuto escludere la intrasportabilità : anche se va respinto - si aggiunge - l'assunto, implicito nel ragionamento del Tribunale, che la valutazione della intrasportabilità vada fatta dal medico con valutazione ex ante);

mancato riconoscimento della esimente di cui all'articolo 5 e/o 47,3° comma: Cp: la disciplina normativa delle visite domiciliari presenta rilevanti difficoltà interpretative (specie sul concetto di “intrasportabilità”) per come risulta e dalla documentazione acquisita in dibattimento e dalle testimonianze di funzionari della Asl interessata sul tipo di istruzioni via via impartite; donde l'errore in cui è incorso l'imputato col ritenere la visita in regime di libera professione ammissibile nella sola assenza dello stato di intrasportabilità, senza tener conto delle altre condizioni prospettate dal Tribunale;

mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione: la sentenza sembra in sostanza, oscillare senza giungere a un preciso orientamento, tra due elementi difformi e confliggenti: la ritenuta necessità di un previo accordo con l'assistito; l'atteggiamento soggettivo dell'agente rispetto alla natura della prestazione svolta.

Motivi della decisione

Va premesso che rettamente la sentenza è stata gravata - a sensi dell'articolo 18 legge 468/99, all'epoca vigente - di ricorso per cassazione, anziché di appello: per l'articolo 57 legge 689/81, le sanzioni sostitutive come la detenzione e la libertà controllata si considerano per ogni effetto giuridico come pene detentive della specie corrispondente a quella della pena sostituita; la pena pecuniaria, al contrario, "si considera sempre come tale, anche se sostitutiva della pena detentiva". Non può quindi trovare seguito la richiesta dei Pg di provvedimento a sensi del quinto comma dell'articolo 568 Cpp.

Ciò posto, si rileva che il primo e il terzo motivo - da esaminare congiuntamente - sono fondati.

Male instradato probabilmente anche dalla condotta istruttoria delle parti e dalla documentazione prodotta, il Tribunale ha finito con l'introdurre nella normativa secondaria di riferimento (accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale, reso esecutivo con Dpr 484/96, di seguito “Accordo”) almeno due elementi - quello della preventiva pattuizione del compenso tra medico e assistito e l'altro della valutazione della urgenza da farsi ex ante - il primo completamente estraneo all'Accordo, il secondo menzionato dal comma quarto dell'articolo 33 ma per finalità (tempo della visita) che non riguarda la materia del compenso nei limitati termini qui in discussione.

Occorreva viceversa, per stabilire se la retribuzione per la visita a domicilio fosse o meno dovuta (secondo che si trattasse o non di rapporto professionale privatistico, perciò sottratto al regime di convenzione), avere riguardo all'unico discrimine previsto dal primo comma dell'articolo 33, che è appunto quello della “trasferibilità dell'ammalato”.

Dato atto che - per quanto risulta dallo stesso tenore della sentenza impugnata - il significato della locuzione (che la norma usa al negativo) non risulta chiarito in alcun protocollo o atto formale dell'autorità sanitaria e considerato che già sul piano semantico aggettivi come “non trasferibile”, “non trasportabile”, inseriti in un certo contesto documentale non possono che avere riguardo, di regola, alle condizioni della persona con esclusione di altri dati come quelli attinenti a situazioni ambientali, disponibilità di mezzi e quanti altri eventualmente valutabili a diversi fini, risulta obbligatorio il riferimento alle sole comuni nozioni di scienza medica, alle quali del resto si uniforma il sanitario che quella valutazione è chiamato a compiere.

A parere di questa Corte è da ritenere che un infermo sia intrasferibile quando si trova in uno stato soggettivo - dipendente anzitutto dalla natura e dallo stadio di evoluzione della malattia ovvero del trauma sofferto, ma anche da fattori complementari come età e condizioni generali della persona - tale che il sol fatto dello spostamento - sia pure con opportune cautele, con l'ausilio di familiari o di altri e con l'uso dei normali mezzi di trasporto - possa con rilevante probabilità causare rischi gravi per la salute o creare condizioni di vita particolarmente penose (si pensi, a quest'ultimo proposito, al malato terminale che ha bisogno di assistenza per una lieve ferita). Il concetto di “intrasportabilità” quindi è non soltanto distinto, com'è del tutto evidente, da quello di "urgenza”, ma non è neppure sinonimo di “sconsigliabilità” o di inopportunità, categorie queste ultime intuitivamente più ampie e che certo non a caso sono state tenute fuori da un testo normativo che, per quanto non sempre felice nella forma, è indiscutibile espressione della volontà concorde di categorie dì tecnici avvezzi a usare con proprietà almeno i termini tipici del comune linguaggio. Si consideri,d'altra parte, che l'area delle prestazioni rientranti nel regime convenzionale è ben delimitata ma anche molto vasta (la base è quella dell'articolo 31 dell'Accordo) e che ogni indebito sconfinamento in campi di attività libero-professionali è fonte di sanzioni anche molto gravi (e così l'articolo 6 comma 2 dell'Accordo - che recepisce precisa direttiva riveniente da articolo 8 D.Lgs. 502/92 - prevede che “l’accertato e non dovuto pagamento, anche parziale”, di somme a compenso di prestazioni professionale determina ipso iure “cessazione del rapporto” col servizio sanitario): di qui anche l'esigenza che il concetto di “non trasferibilità” sia informato a criteri di prudenza e, se si vuole, di rigore.

Certo, il sistema assistenziale non può,almeno tendenzialmente, atteggiarsi in modo che una persona malata (o che reputa di esserlo) debba sentirsi in qualche modo costretta a lasciare la propria abitazione per trovare dell'assistenza sanitaria: ma questa esigenza si fronteggia in modo diverso e anzitutto con mezzi il cui costo possa gravare, ripartito, sulla collettività, senza penalizzare ingiustificatamente una certa categoria professionale: come sempre in situazioni di questa natura, la via giusta di attacco è quella della graduatoria dei valori in campo e della relativa comparazione.

Quanto al momento e al modo di accertamento della trasferibilità (o non trasferibilità) del paziente, sembra anzitutto doversi escludere che il giudizio - da parte del medico chiamato a intervenire - debba essere dato ex ante, perché intanto la funzionalità del sistema non ne riceverebbe nella normalità dei casi, apprezzabili benefici , ma soprattutto potrebbe quel giudizio essere foriero di intese su modalità e compensi in vista dell'intervento domiciliare, negozio da ripudiare,quanto meno come illecito sul piano civilistico, siccome coinvolgente la salute (va da sé che il medico può servirsi con la dovuta cautela delle informazioni che sovente gli vengono date - a distanza, prima della visita - per stabilire, lui che al momento è il solo responsabile, necessità, tempo e luogo dell'esame diretto del paziente, come può illustrare quanto normativamente prescritto circa il proprio compenso: importante è che si astenga da qualsiasi comportamento o indicazione che possa in qualche modo orientare il malato, o chi per lui, nella scelta dell'uno o dell'altro tipo d'intervento). Se tutto questo è, appare obbligata la soluzione prospettata dal ricorrente,ossia che il giudizio sia da posticipare alla visita: e ciò non solo per la ovvia esigenza tecnica di informazione il più possibile completa, quanto perché ormai ogni apprezzabile rischio di mercanteggiamento sulla salute risulta superato; l'ulteriore intuitivo corollario sul piano che qui interessa è che la prova della infondatezza della valutazione di trasferibilità - onde desumerne, almeno, che la retribuzione per la visita domiciliare non è, per i fini di cui all'articolo 318 Cp, dovuta - incombe all'accusa.

E poiché nel caso nulla indica che il giudizio implicitamente, formulato dal sanitario nel momento in cui riscosse il compenso sia stato inesatto (deponendo, anzi per la correttezza la circostanza che si trattava di una sedicenne con alterazione febbrile da stato influenzale), non resta che da escludere la materialità stessa del contestato reato.

PQM

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.


Fonte

Cassazione - sezione sesta penale (up) - sentenza 4 ottobre-20 novembre 2001, n. 41646



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