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Strategie per ridurre il rischio cardiovascolare
Inserito il 01 aprile 2007 da admin. - cardiovascolare - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

Una strategia basata sul trattamento dei soggetti ad elevato rischio risulta essere vincente rispetto a quella di trattare tutta la popolazione oppure singoli fattori di rischio.

In questo articolo Alessandro Battaggia passa in rassegna le varie strategie che è possibile mettere in campo per gestire il rischio di una determinana patologia, in particolare il rischio cardiovascolare.
Ci sono essenzialmente tre possibilità:
1) Trattare tutta la popolazione di riferimento indipendentemente dal rischio individuale (cosiddetta strategia "population based"). Il vantaggio ipotizzato di questa opzione è che in termini di salute pubblica si otterrebbe una notevole riduzione degli eventi perchè tutta la popolazione verrebbe esposta al trattamento anche se per il singolo il beneficio può essere piccolo. Tuttavia questa strategia ha dei punti deboli perchè in una popolazione la distribuzione del rischio è molto disomogenea: più o meno la metà delle morti cardiovascolari avviene in soggetti che hanno già avuto un infarto o un ictus e che rappresentano una piccola parte dell'intera popolazione
2) Trattare soggetti che hanno un singolo fattore di rischio (cosiddetta "single risk factor based")
Il punto debole di questa teoria è che avere un singolo fattore di rischio non è un indice molto predittivo del rischio globale di andar incontro ad un evento cardiovascolare. Per esempio studi di popolazione hanno dimostrato che un singolo fattore di rischio identifica solo il 13-15% dei decessi per infarto e solo il 25% delle morti per ictus che si verificheranno nel decennio successivo.
3) Trattare soggetti che hanno un elevato rischio globale (cosiddetta "high baseline risk based")
Questa opzione è oggi resa possibile dal fatto che è possibile calcolare, per ogni singolo paziente, il suo rischio globale di andar incontro ad un evento cardiovascolare nei prossimi dieci anni. Trattare solo questi pazienti è una scelta che risulta sette volte più efficace di quella "population based" e due volte più efficace di quella "single risk factor based".
In conclusione la strategia di popolazione risulta essere la meno efficace (42 decessi evitati per 100.000 pazienti in 10 anni) ed ha lo svantaggio di dover essere applicata all'intera popolazione di riferimento.
Con la strategia rivolta all'alto rischio si ha invece un'efficacia molto maggiore (290 decessi evitati per 100.000 trattati in 10 anni) e si ha il vantaggio di dover trattare solo il 12,9% della popolazione, con l'unica incognita della compliance dei pazienti ai trattamenti prescritti.

Fonte: A. Battaggia: Come agire sui fattori di rischio cardiovascolare? analisi di diversi modelli operativi.

http://www.pillole.org/public/aspnuke/downloads.asp?id=253

Commento di Renato Rossi

In questo suo lavoro Alessandro Battaggia spiega in maniera esauriente e completa, con grafici e tabelle, perchè sia più conveniente trattare i pazienti con un elevato rischio globale basale piuttosto che adottare una strategia rivolta a tutta la popolazione (indipendentemente dal livello di rischio individuale) oppure al trattamento di un singolo fattore di rischio (ipertensione, ipercolesterolemia). D'altra parte le ultime linee guida sulla prevenzione cardiovascolare hanno in generale abbracciato questa modalità di approccio.
Oltre che dai numeri che A. Battaggia ci mostra in tutta la loro crudezza la scelta di privilegiare l'alto rischio deriva anche da studi sul campo. Per rimanere sulle statine, uno dei trattamenti più usati per ridurre il rischio cardiovascolare, i trials hanno chiaramente evidenziato che i benefici sono maggiori quando si curano pazienti che hanno già avuto un evento trombotico (infarto, ictus), cioè in prevenzione secondaria, rispetto a quelli ottenibili quando si "curano" soggetti senza precedenti eventi (prevenzione primaria). Anzi in un recente editoriale alcuni autori mettevano addirittura in dubbio l'opportunità di usare le statine in prevenzione primaria, perlomeno nelle donne e nei pazienti con più di 69 anni [1]. Insomma gli interventi di tipo preventivo, proprio perchè rivolti a persone sane (ma predisposte ad ammalarsi secondo i dati statistici), dovrebbero essere il più mirati possibile e diretti a chi più se ne avvantaggia e non distribuiti indiscriminatamente a pioggia. Tra l'altro quest'ultima scelta, oltre a trattare inutilmente un gran numero di persone per molti anni, espone agli inevitabili effetti collaterali dei farmaci che potrebbero rivelarsi maggiori dei benefici ottenuti.


Commento di Luca Puccetti

Alessandro Battaggia ha puntualizzato, con la consueta lucidità, le motivazioni che hanno sostanzialmente decretato l'inefficienza degli interventi generalizzati di popolazione al fine di incidere sostanzialmente sulla riduzione dei fattori di rischio cardiovascolare.
Le strategie di intervento basate su una stima universalistica e su interventi standardizzati ed applicati a livello di popolazione raramente hanno portato a risultati soddisfacenti (2). Una strategia basata sull'individuazione dei soggetti ad alto rischio rende molto più efficiente l'intervento poiché viene applicata a soggetti che, sulla base di una valutazione complessiva di diversi fattori di rischio combinati, presentano un'alta probabilità di presentare eventi cardiovascolari. E' ben evidente che applicando solo a questi soggetti ad elevato rischio gli interventi, si ottiene una riduzione dei soggetti cui il trattamento sarebbe somministrato invano poiché non sarebbero mai stati vittime dell'evento cardiovascolare.
Tuttavia oltre i due terzi degli eventi si presentano nei soggetti non ad elevato rischio. Ne consegue che la strategia di individuare e trattare solo soggetti ad elevato rischio produce, in termini di popolazione, vantaggi limitati.
Per migliorare i risultati degli interventi di popolazione ed incrementarne l'efficienza, dal punto di vista teorico occorrerebbe aumentare l'efficacia degli interventi medesimi, la capacità di individuare i soggetti a rischio e diminuire i costi.
I problemi di un'applicazione a livello di popolazione degli interventi sono tuttavia notevoli. E' prima di tutto necessario chiedersi se le nostre attuali stime siano migliorabili al fine dell'individuazione dei soggetti non classificati ad elevato rischio (in base ai modelli di Framingham e derivati) in modo da reclutare tra i soggetti a rischio anche coloro che oggi sarebbero esclusi applicando i modelli probabilistici basati sulla stima della combinazione dei fattori di rischio classici.
Purtroppo l'aggiunta di ulteriori fattori di rischio quali ad esempio la misura della PCR o della omocisteinemia o dell'uricemia, pur ammesso che fossero tutti significativi predittori indipendenti di rischio cardiovascolare, non migliora sostanzialmente la capacità di individuare i soggetti "misclassificati" ossia quei soggetti che, pur non presentando un valore elevato dell' indice combinato dei fattori di rischio, vanno incontro agli eventi cardiovascolari. Si discute se nei soggetti classificati a medio rischio (tra 10 e 20% di rischio per un evento a 10 anni), in base all'applicazione degli attuali fattori di rischio, possano essere usate valutazioni aggiuntive per migliorare la capacità discriminante quale ad esempio la misura dello spessore intimale delle carotidi o la quantità di calcio presente a livello carotideo. Una migliore capacità di predire i soggetti che presentassero eventi sarebbe utile per allargare l'applicazione degli interventi ad un numero più ampio di soggetti riducendo gli interventi "inutilmente somministrati", ma non omettendo di applicarli in soggetti che poi presenterebbero l'evento. Ma sulle strategie di intervento di popolazione occorre anche chiedersi come ne sia stata effettivamente supportata l'implementazione. L'applicazone nella pratica clinica delle strategie di popolazione ha ovviamente moltissime barriere, ma le principali sono organizzative, motivazionali e soprattutto relative alla flessibilità delle strategie per aumentare l'aderenza. Allorquando facciamo riferimento alle strategie di popolazione intendiamo, per dirla con G. Rose, interventi ad apparente basso costo come il counselling sul fumo o programmi per aumentare l'esercizio fisico, il dimagrimento, la corretta alimentazione ed in generale ad interventi relativi al miglioramento degli stili di vita.
Questi interventi apparentemente sembrano a basso costo, in realtà comportano uno sforzo considerevole da parte di molti attori che devono essere coordinati, ma che non possono prescrindere dal ruolo cardine della medicina generale. Il progetto "ALBIATE IN FORMA" (Progetto per la promozione della salute e di corretti stili di vita) che ha visto un impegno coordinato di molti soggetti tra cui spicca il ruolo della MG, ha conseguito risultati in termini di riduzione dell'obesità, ma mancano i dati sulla sosteniblità a lungo termine e sugli eventi.
Oltre che con il miglioramento della capacità di stratificazione predittiva del rischio interventi di popolazione anche marginalmente efficaci potrebbero dare risultati apprezzabili se riferiti alla scala dell'intera di popolazione a rischio intermedio a patto che siano implementabili e sostenibili. L'economicità degli interventi deve necessariamente rapportarsi a degli scenari di confronto. Se le attuali tendenze fossero confermate i costi per l'assistenza ai soli diabetici assorbirebbero, nell'arco di qualche decennio, tutte le risorse attualmente disponibili. In tal caso la gravità del problema ed i costi delle complicanze renderebbero economicamente interessanti interventi attualmente relativamente costosi in termini non solo monetari, ma anche inerenti alla modificazione del sistema di vita relativamente all'organizzazione urbanistica, alla ripartizione del tempo dedicato al lavoro e ad altre attività, ai trasporti, etc.
Ma il successo degli interventi oltre che dei costi diretti deve farsi carico anche degli incentivi per l'effettiva implementazione che comporta un grande sforzo da parte degli operatori che devono usare approcci non standardizzati, ma altamente personalizzati. La conoscenza del contesto di vita del paziente rende il medico di medicina generale l'elemento principe che possiede le conoscenze necessarie a personalizzare l'intervento. Per fare tutto ciò esiste una barriera determinante che è il tempo da dedicare al counselling ed al supporto del paziente. Fino a quando non verrà dato il giusto riconoscimento e la corretta gratificazione al tempo di cura l'implementazione degli interventi sarà minima ed i risultati deludenti.
In conclusione attualmente la strategia high risk based risulta la più efficiente e conveniente , ma in futuro se il tasso di incremento delle condizioni di rischio quali diabete, obesità ed ipertensione dovesse continuare agli attuali ritmi lo scenario potrebbe cambiare rendendo imperativi interventi anche su soggetti a rischio stimato meno elevato.

Bibliografia
1. Statine in prevenzione primaria: cosa ci dice l'evidenza?
2) JAMA. 2007;297:1376-1378 http://jama.ama-assn.org/cgi/content/full/297.12.1376
3) Am J Epidemiol. 1995;142:576-586
4) Circulation. 2006;114:1490-1496
5) Am J Cardiol. 2006;98(2A):2H-15H
6) JAMA. 2004;291:210-215
7) http://www.comune.albiate.mi.it/upload/12f05oylkmterq55ntf43d2u200607201227ALBIATEINFORMA.pdf

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