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IL POPOLO DEL GRANO
Inserito il 09 febbraio 2024 da admin. - professione - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

Da bravo italiano, amante del pane e soprattutto della pasta, ho cercato in passato di raccogliere informazioni storiche e qualche spunto sanitario collegato all' alimentazione dei farinacei.
Daniele Zamperini, dall' Archivio Storico, ma con spunti ancora interessanti

Se e’ vero che “l’ uomo e’ cio’ che mangia”, e’ possibile osservare come, dal punto di vista alimentare, il mondo possa essere diviso, per certi aspetti, in due parti distinte: mentre in Oriente si affermava, come cibo per antonomasia, il riso (originario dell’ India e diffusosi vero il 2000 A.C. in Cina e nelle Filippine), in Occidente nasceva invece il “popolo del grano”.

Il contadino occidentale ha sempre, tenacemente, coltivato il grano, malgrado le difficolta’ che tale coltivazione comportava: scarsa resa (notizie storiche riferiscono come fosse molto positiva gia’ una resa di 4 a 1, cioe’ di quattro chicchi di grano per ognuno che fosse stato seminato, ridicola secondo gli standard attuali), necessita’ di rotazione delle culture, di concimazioni adeguate e cosi’ via.

Tuttavia, per l’ alta capacita’ nutritiva e per le gradevoli qualita’ organolettiche il grano e’ sempre rimasto l’ alimento base in tutto l’ Occidente, e soprattutto in Italia.

Documenti storici, trattati classici, tradizioni ed usi, dimostrano concordi che il patrimonio alimentare dell’Italia, nella sua ricchezza di varieta’ e produzione, e’ rimasto quasi invariato dalle epoche piu’ remote fino ai giorni nostri. Se si eccettua l’introduzione di alcuni vegetali come il pomodoro, la patata o il mais, introdotti dopo la scoperta dell’America, noi viviamo ancora, dopo tanti secoli, quasi degli stessi alimenti dei nostri piu’ antichi antenati.

La leggenda:
Secondo la mitologia greca fu Demetra, dea delle messi, - Cerere per i Romani - a donare all'uomo i cereali, in particolare il frumento da cui appunto si ricava la farina per panificare. Da sempre il pane ha avuto una sacralità che nel mondo greco prima e romano poi era legata alla fecondità della terra, tanto che Demetra era celebrata durante i riti dei misteri eleusini, e ad essa, durante le feste rurali che nell'antica Grecia si svolgevano da metà maggio a metà giugno (epoca della raccolta del grano) veniva offerto il pane Thargelos, preparato con la prima farina ottenuta dopo la mietitura

Un po’ di storia:
Incerta è l'epoca della nascita del frumento: alcune tracce - trovate nella caverna di Merkenstein in Austria – permetterebbero di farlo risalire al periodo Paleolitico; altri reperti archeologici lo farebbero riasalire invece all' età neolitica (6000 anni avanti Cristo).
In epoca storica, tra le tante ipotesi, e’ da seganlare quella dello storico Diodoro Siculo (I secolo a.C.) che, con legittimo orgoglio regionalistico, rivendica alla Sicilia (Trinacria) il ruolo di patria legittima del frumento in quanto in questa terra cresce spontaneo il Triticum villosum che attraverso la coltivazione si sarebbe trasformato in Triticum sativum, cereale usato per la panificazione. Saranno infatti soprattutto i cereali del genere triticum (cosi’ detto probabilmente per il fatto che il grano deve essere prima sottoposto alla battitura e poi alla macinazione) a costituire in seguito la base del patrimonio alimentare occidenatale.

Il pane, realizzato in vari modi e con vari elementi, è comunque presente presente nella storia di tutti i popoli occidentali.

E’ certo che gli Etruschi fossero forti coltivatori di cereali: Tito Livio enumera, tra gli aiuti forniti dalle citta’ etrusche a Scipione nel 204 A.C., abbondanti quantita’ di cereali, e soprattutto di Triticum (frumento bianco).

Gli antichi agricoltori conoscevano all’incirca le stesse specie e varieta’ di cereali note ancora oggi: Plinio, Dioscolide, Varrone affermano concordemente che il cereale piu’ largamente coltivato era l’orzo, di cui Ippocrate e Galeno, Celso e Paolo di Egina esaltavano le azioni terapeutiche come vivanda degli infermi per le virtu’ contenute nella ptisana (una specie di farinata ottenuta con la farina d’ orzo piu’ o meno grossolanamente macinata, bollita con l’acqua e arricchita di svariati ingredienti, e somministrata in forma di brodo, scolato o anche non scolato, simile pressappoco agli odierni brodi vegetali).

Era usatissimo il farro, cereale che molto probabilmente corrisponde al “dicocco” (Triticum dicoccum) o, secondo ricerche che risalgono al 1765, alla nostra spelta. Del farro si servirono, secondo Plinio, i popoli del Lazio gia’ 300 anni prima che fosse scoperta l’arte della panificazione, cuocendolo con acqua sotto forma di farinata, cosi’ come ancor oggi si usa in alcune zone agricole.

L’ arte della panificazione poi progredi’ rapidamente: allora come ora vennero prodotti diversi tipi di pane, ottenuti usando diverse specie di farina di grano e, anche nella stessa farina, diversi gradi di molitura e di stacciatura.

Infatti la farina veniva divisa, facendola passare attraverso setacci di diverse forme e grandezze, in diversi gradi di purezza: il fior della farina (flos) era la farina piu’ fine, ottenuta sottraendo ogni particella di crusca e di farina piu’ grossa; era anche detta siligo perche’ si otteneva da quella varieta’ di grano piu’ bianco indicato col nome di siligine.

La farina media, ottenuta dopo che erano stati stratti il “fiore” e la crusca, era la cosiddetta simila, o similago o farina secundaria, la farina generalmente usata per il pane dell’ esercito, il pane prediletto da Cesare Augusto (“secundarium panem appetebat”); se a questa farina era stata lasciata la crusca si otteneva invece la farina pollen (Celso) o la farina crassior.
L’ arte della panificazione ebbe un forte sviluppo durante il tardo impero romano, allorche’, per la diffusa ricchezza, la decadenza dei costumi e delle delle virtu’ domestiche, le donne cessarono di cuocere il pane in casa. Secondo lo storico Plinio furono alcuni prigionieri Macedoni a insegnare ai Romani l'arte della panificazione che ben presto divenne un lavoro assai redditizio e socialmente considerato. I fornai, detti pistores a causa della primitiva tecnica di macinazione consistente nel pestare i grani per separarli dalle glume (solo molto piu’ tardi si conobbe l’uso delle macine) costituivano infatti una categoria molto importante.

In età romana, già all'epoca dell'imperatore Augusto a Roma vi erano trecento forni. I mulini pubblici venivano edificati vicino ad essi per realizzare agevolmente il ciclo della panificazione.
I pistores erano pure incaricati, dallo Stato, della distribuzione di grano e di pane (frumentationes) ai poveri, dapprima a prezzo “sociale”, poi del tutto gratuitamente. La distribuzione gratuita di “alimenta” divenne un problema ( e una fonte di malaffare) colossale se si pensa che ne beneficiavano, nel IV secolo D.C., oltre 300.000 persone. Si comprende percio’ la sempre crescente importanza dei fornai: si conoscono monumenti sepolcrali eretti in memoria di fornai divenuti ricchissimi in seguito al loro mestiere: il monumento sepolcrale dedicato ad Eurisace, fuori di Porta Maggiore, a Roma, ove vengono rappresentati, mediante una serie di particolareggiati bassorilievi, i diversi momenti della preparazione, della cottura e della vendita del pane, rappresenta un esempio illustre.

Gli scavi archeologici di Pompei e di Ostia hanno poi recuperato diverse botteghe e retrobottoghe di fornai, di fabbricatori di paste, e sono stati recuperati addirittura, dalle ceneri del Vesuvio, alcuni pani dell’ epoca, pressoche’ intatti nella loro forma. Tali pani non si differenziavano molto, per l’ aspetto, da quelli attuali: la forma piu’ comune era quella circolare un po’ schiacciata e recante sulla superficie dei solchi a settori che ne facilitavano la divisione, molto simile all’attuale “michetta” o “rosetta”, ma se ne facevano di forme piu’ svariate. Tale abitudine sembra essere derivata direttamente dall’ antico Egitto, ove sono stati rinvenuti pani di forma conica, semicircolare, ovoidale, triangolare e a ciambella. Li’, durante il Nuovo Regno, era addirittura invalso l’ uso di forme zoomorfe o antropomorfe per il pane destinato ai bambini.

È certo comunque che il frumento con cui oggi viene preparato il pane è il risultato di vari incroci e pertanto è ben diverso da quello degli antichi.

Il pane, oggi.
Aspetti nutritivi: il pane e la pasta alimentari ottenuti dalla farina del grano contengono principalmente due principi alimentari indispensabili all’organismo: le proteine (glutine) e i carboidrati (amidi).
La farina di frumento contiene anche una certa quantita’ di grassi, circa il 5%, che puo’ contribuire a coprire anche il fabbisogno di queste sostanze. Sono pero’ soprattutto le proteine, l’amido e i carboidrati a rendere cosi’ cosi’ pregevoli e gustosi la farina e i suoi derivati.
Il pane deve la sua leggerezza e la sua fragranza a una sostanza che e’, sostanzialmente un microrganismo cioe’ il lievito Questo fermenta le materie zuccherine che si trovano nella farina producendo acido carbonico che rimane imprigionato nella pasta; questa diventa spugnosa e ricca di microscopiche bollicine d’aria, trattenute dal glutine, ottenendo cosi’ quell’elasticita’ e quella leggerezza tanto gradevole.

Nei paesi dove la cultura del pane e’ poco avanzata si usa molto il pane di segale che differisce dal pane di grano in quanto non contiene glutine che si possa estrarre direttamente. Differisce anche per una proporzione piu’ alta di sostanze solubili e igroscopiche, nonche’ per il colore brunastro. E’ un pane meno fermentato, piu’ compatto che si conserva piu’ a lungo fresco.
Il pane d’orzo e’ molto simile a quello della segale ma e’ ancora piu’ compatto a causa della mancanza di glutine. Il suo sapore e il suo odore sono assai molto meno gradevoli di quelli del pane di frumento.
La farina d’avena e’ quella che da il pane e’ meno buono, pesante, compatto, di un sapore amaro. I canoni di certi ordini monastici ne prescrivevano l’uso esclusivo a titolo probabilmente di mortificazione della carne.

Alcune curiosità da segnalare:

Narra la storia che Giulio Cesare contro Vercingetorige, in Gallia, rischio’ l’ammutinamento dei suoi soldati in quanto erano rimasti senza pane. Non che essi mancassero di cibo, tutt’altro, in quanto erano ben forniti di carne e di altri alimenti, tuttavia questo tipo di alimentazione non li soddisfaceva in quanto abituati a un vitto a base di farinacei di cui sentivano la mancanza (la famosa offa).
Nel 1300 furono realizzati dei panini bianchi detti «da bocca», utilizzati al posto dei tovaglioli. Esiteva pure il “pane del boia”, sorta di vitalizio alimentare che i fornai furono obbligati per legge a realizzare: questo veniva consegnato, in segno di disprezzo, capovolto. Ancora oggi, pur essendosi persa la memoria dell’ origine, è sgradito il pane capovolto sia quando si porge che quando si mette in tavola, avendo assunto nella credenza popolare un significato negativo di porta sfortuna trasformato poi in una regola di galateo.
Nel 1728 Jacopo Bartolomeo Beccari evidenzio’ le proprieta’ nutritive possedute dal glutine che, in epoca autarchica, venne addirittura definito “carne vegetale” per il suo valore biologico, pari a quello delle migliori proteine animali.
È del 1875 la famosa Inchiesta Agraria di Stefano Jacini che evidenzia il pane come alimento base per gli operai, mentre ancora il consumo della carne era molto basso.
La “Gazzetta Medica Lombarda” nel 1881, riporta la scoperta fondamentale del dott. C. Bazzoni che, nella Sala del Consolato Operaio di Milano effettuo’ un esperimento con delle zuppe accompagnate col suo nuovo pane-carne.
Narrano le cronache che piu’ di 66 persone fra delegati, operai, consociati e invitati presero parte all’esperimento. Tutti trovarono il pane soddisfacente e la zuppa con essa confezionata superiore in bonta’ a qualsiasi altra, considerando anche il suo bassissimo prezzo. I delegati hanno poi all’unanimita’ dichiarato che “Doversi proporre il nuovo pane-carne per uso di nutrimento quotidiano degli operai e dei contadini, doversi invitare il Governo a sostituire questo pane a quello in uso dell’esercito col nome di galletta, doversi finalmente invocare che vengano introdotte le zuppe in discorso nei ricoveri di mendicita’ e dovunque e’ necessaria una nutrizione igienica ed essenzialmente economica”.
Negli eserciti agli inizi del ‘900 si usava il cosiddetto “pane di munizione”, fatto di farina di frumento con aggiunta di crusca.
Alcuni tipi di pane detti “pane inglese” vengono preparati con miscugli in determinate proporzioni di poltiglia di patate, di farine, di lievito di birra.

Gli altri alimenti a base di cereali: soprattutto pasta

Gli antichi conoscevano, oltre al pane, tutta un’altra serie di piatti basati sui diversi cereali coltivati: simila (semolino di grano), alica (semolino di farro), farinate e polente piu’ o meno spesse e arricchite con svariati ingredienti e droghe, perfino una forma di pasta (laganum) simile a quelle delle attuali lasagne (da cui probabilmente e’ derivato il nome) o tagliatelle.

Si conoscevano diverse forme di focacce (offa, libum ecc): erano semplici, fatte con pasta fermentata o non fermentata (azima), a base di farine dei vari cereali, cotte sotto la cenere al fuoco diretto oppure entro pentole, eventualmente mescolate con condimenti grassi ( olio, noci, avellane, ecc.).

Le focacce venivano anche condite con ingredienti vegetali o animali, come latte o formaggio, cosi’ come si usa ancora oggi in diverse regioni d’Italia.

Il succo delle cariossidi immature dei cereali, ricche di zucchero, veniva anch’esso utilizzato per produrre, dopo torrefazione, delle bevande gradevoli e sostanziose, miscelate con miele e con latte. Di questa specie doveva essere il chondros dei Greci e l’ alica del Latini; questa, secondo Palladio, si otteneva in particolare dall’orzo semimaturo raccolto nel mese di Giugno

Dei vari derivati artificiali derivati dai generi alimentari era noto l’amido o amilum, cosi’ detto perche’ “a mole”, cioe’ formato dalla farina non macinata, ottenuto macerando con acqua le cariossidi del frumento e spremendo, colando e disseccando la polvere che se ne otteneva.

Ma il tipico alimento italiano a base di grano e’, e rimane, la pasta.

Chi ha inventato la pasta?
E’ una domanda difficile: alcuni testi fanno riferimento a Marco Polo, altri a genti venute dall'Oriente o sostengono addiritturea che la pasta sia stata importata dai Mongoli.
Un impasto molto simile alla pasta attuale era gia’ usato dagli etruschi, visto che in una tomba di Cerveteri sono raffigurati coltelli, mattarello e una rotella che sembra quella ancora in uso per la preparazione dei ravioli. E’ probabile che gli etruschi preparassero e cucinassero lasagne a base di farina di farro.
Le lagane romane, di cui abbiamo gia’ parlato, certamente non erano identiche alle attuali lasagne, ma sicuramente ne erano abbastanza simili, ed erano a base di farina. Il piu' antico libro di ricette romane, scritto da Apicio, raccomandava di utilizzare "le duttili lagane per racchiudervi timballi e pasticci".
Intorno all'anno Mille abbiamo la prima ricetta documentata di pasta, nel libro "De arte Coquinaria per vermicelli e maccaroni siciliani", scritto da Martino Corno, cuoco del potente Patriarca di Aquileia.
Nel XII secolo si documentata l'esistenza di un'industria di pasta secca, detta "itrija", localizzata nelle vicinanze di Palermo.
Nel "Libro di chi si diletta a girare il mondo" scritto nel 1154, dal geografo di origine araba Al-Idrisi, che era al servizio di Ruggero II, si legge di una zona abitata con case e "molti mulini", a poca distanza da Palermo, denominata "Trabia" dove si fabbrica pasta a forma di fili (Tria in arabo), e di commerci della pasta, molto sviluppati, in paesi di "Musulmani e Cristiani", spedita con navi che ne “trasportarono abbondanti quantità ovunque nel Mediterraneo".
E’ curioso osservare che in Puglia le lasagne secche oncor oggi vengono chiamate "Tria".
E’ percio’ dimostrato come, quasi un secolo prima della nascita di Marco Polo gia' si usava, in Italia, la pasta alimentare a forma di spaghetto.
La Pasta così trattata non entro' immediatamente nelle mense "nobili e principesche d'Italia", perche' l’ uso era piuttosto scomodo: come nel famoso film di Toto’, all’ epoca la pasta veniva mangiata con le mani.
Fu solo attorno al 1700, che grazie ad un tal Gennaro Spadaccini, intraprendente ciambellano di corte di Re Ferdinando II, e alla sua geniale idea di utilizzare una forchetta con 4 punte corte (poi diventata di uso comune), che la Pasta fu servita anche nei pranzi delle corti di tutt'Italia e di la' inizio' il suo giro del mondo.
Inizialmente la pasta veniva confezionata esclusivamente a mano, ma allargandosi il consumo crebbe il numero dei maestri d'arte, che si unirono in Corporazioni e idearono mezzi meccanici per facilitare la produzione.
Dallo Statuto della Corporazione di Roma, che risale alla fine del Cinquecento, apprendiamo che le botteghe d'arte si distinguevano in due categorie: quelle con torchio e quelle senza. Quindi l'uso del torchio a vite era già diffuso tra il XVI e il XVII secolo.
Fin dall'inizio della produzione artigiana si era notato che la pasta, analogamente ad altre sostanze alimentari, dopo essere stata privata in un tempo piuttosto breve di una forte percentuale dell'acqua in essa contenuta, poteva essere conservata a lungo senza deteriorarsi. Si incominciò quindi a ricercare una condizione che permettesse di ottenere , nel modo meno dispendioso possibile, una accurata essiccazione.
Il clima, caratterizzato da regimi di brezza costanti e favorevole all'essiccazione, portò ad accentrare la lavorazione in Sicilia, in provincia di Genova e nel napoletano, dove questa industria assunse proporzioni imponenti dando origine, sul finire del secolo scorso, a una notevole esportazione. L'essiccazione della pasta, specialmente nel napoletano, assunse le caratteristiche di un vero e proprio rito, officiato dal pastaio: egli doveva prevedere le condizioni climatiche, sentire i cambiamenti del tempo, conoscere al tatto lo stato della pasta, il grado di essiccazione raggiunto, per stabilire le operazioni successive necessarie ed evitare che il prodotto potesse fermentare o asciugare troppo rapidamente.
Con l'introduzione dell'essiccazione artificiale, l'industria della pastificazione tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento va diffondendosi in tutte le regioni d'Italia, anche in quelle dove le condizioni ambientali avrebbero impedito l'essiccazione naturale praticata a Napoli, a Genova e a Palermo.

Il consumo medio anno pro-capite, (pasta) in Kg, in alcuni paesi e' cosi' valutato (dati del 1999):
Italia Kg. 28
Venezuela Kg. 13
Tunisia Kg. 13
Stati uniti Kg. 9
Cile Kg. 9
Svizzera Kg. 9
Grecia Kg. 9
Francia Kg. 7
Russia Kg. 7
Canada Kg. 6,3
Germania Kg. 5
Spagna Kg. 4
Inghilterra Kg. 2
Giappone Kg. 1,8
Cina kg. 0,8

Il mercato
Nel settore della pasta alimentare, malgrado l’ introduzione di nuove regole da parte della CEE e malgrado le fluttuazioni conseguenti alle periodiche “guerre alimentari” tra Europa e Stati Uniti, l'Italia ricopre un ruolo di primo piano.
Grazie a una produzione che (dati del 1997) ha superato le 2.920.000 tonnellate, pari a un fatturato di 5.777 miliardi di lire, il nostro Paese guida la classifica mondiale dei produttori, seguito dagli USA che esprimono una produzione di circa 2 milioni di tonnellate.
Di assoluto rilievo anche i livelli produttivi di altri quattro Paesi: la Russia, con oltre 1,3 milioni di tonnellate, il Brasile (circa 0,7 milioni t), Turchia (0,4 milioni t) e la Francia (0,3 milioni t). Significative anche le produzioni di Messico, Spagna e Argentina. La quota di esportazione della pasta italiana si aggira intorno al 50% della produzione.
I principali mercati di assorbimento della pasta "made in Italy" sono: la Germania e gli USA (circa il 15% ciascuno), la Francia (circa il 13%); seguono Regno Unito, Russia e Giappone.
Attualmente in Italia operano quasi 200 imprese con un totale di oltre 8.000 addetti

Il problema del glutine: la celiachia

Paradossalmente la nazione che piu’ fa uso di alimenti a base di grano risulta pure essere quella con il maggior numero di persone affette da intolleranza al glutine, componente proteica fondamentale del grano stesso (ma non, ad esempio, del riso). La malattia celiaca,infatti, in diversi gradi di gravita', e' assai comune in Italia. Puo’ definita come “un’anomala risposta immunologica all’ingestione di glutine in soggetti geneticamente suscettibili”. E' stato calcolato (www.celiac.org ) che ne sia affetto 1 italiano ogni 250. La maggior parte di queste persone presentano sintomatologia aspecifica intestinale, spesso etichettata come “colon irritabile”, accompagnata a volta da altri sintomi, come dispepsia, flatulenza, dimagramento. Più del 50% dei pazienti pero’ non presentano la tipica patologia o sintomatologia gastroenterica ma sintomatologia riferita ad altri organi, per cui non vengono correttamente diagnosticati.
L’ anemia è il sintomo extraintestinale di più frequente riscontro, ma non sono infrequenti l’osteoporosi giovanile, l' atassia idiopatica (secondaria a danno cerebellare), l' epilessia (presente nel 5% dei pazienti, accompagnata da lesioni calcifiche cerebrali), la sintomatologia psichiatrica (depressione, disturbi del comportamento, ansieta'), disturbi cutanei (alopecia areata, iperpigmentazione, lichen, psoriasi) patologia riproduttiva: (amenorrea, sterilita', aborti ricorrenti, oligo-azoospermia).
Sono risultate associate ad intolleranza al glutine pure le patologie tiroidee autoimmuni, il diabete mellito di tipo I, la cirrosi biliare primitiva, la dermatite erpetiforme, le alterazioni criptogenetiche delle transaminasi.
Ci si chiede (e la cosa e’ ancora controversa) se le abitudini alimentari basate sul consumo di cereali possano avere un effetto favorente la malattia; certamente pero’ possono rivestire il ruolo di fattore scatenante nei soggetti geneticamente predisposti. Molti specialisti sconsigliano, percio’, l’ aggiunta di glutine agli alimenti destinati all’ uso dell’ infanzia (le cosiddette “pastine glutinate”) in quanto al loro accresciuto potere nutritivo puo’ contrapporsi lo scatenamento di una sindrome da intolleranza. Il rispetto della dieta priva di glutine resta il trattamento fondamentale, per questi pazienti.

Daniele Zamperini: 2001.

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