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IA: Che relazione ha ciascuno di noi con la Intelligenza Artificiale?

Categoria : Medicina digitale
Data : 14 dicembre 2025
Autore : admin

Intestazione :

Se ci riflettiamo ne saremo sorpresi: ecco perchè



Testo :

La intelligenza artificiale sta penetrando nelle nostre menti e nelle nostre vite silenziosamente ma inesorabilmente. Qualunque sia la nostra opinione e la nostra percezione la IA sta cambiando non solo il nostro comportamento ma soprattutto il nostro modo di sentire, pensare ed agire. La relazione che si è creata e che si sta modulando nel tempo tra IA e lui e, per soggetti più lucidi e reattive anche da noi e "Lei" è piuttosto complessa e spesso variabile nel tempo e nello "spazio della interazione".
Le conseguenze possono essere molteplici e talora molto rilevanti. Un importante supporto nello studio della complessità di questo fenomeno ci viene fornito dalle ricerche sociologiche e psicologiche sulle "relazioni oggettuali".
Per fornire ai nostri lettori nuovi strumenti di riflessione e di valutazione proporremo in questa prima parte alcuni spunti pervenutici da questi metodi di ricerca mentre nella seconda parte proporremo nostre originali riflessioni basate sulle esperienze che noi ed altri colleghi abbiamo raccolto nel corso del primo anno di convivenza con la intelligenza artificiale.
Spunti di Riflessione sulla relazione Umani/ IA
1 ) La IA ha alcune caratteristiche e prerogative in comune con gli “ Esseri Viventi”: è nata, sta crescendo, si nutre ( di informazioni), si ripropone con alcune modalità caratteristiche, reagisce ad alcuni stimoli: questi dati di fatto “ umanizzano la IA “ ed inducono gli umani ad instaurare una relazione con essa.
2) La relazione inizialmente tende ad essere meccanica e fredda ma se la IA fornisce ripetutamente risposte cortesi e coerenti può verificarsi “l’Effetto Eliza”, intuito e studiato negli anni ‘60 da Joseph Weizenbaum, professore al MIT: l’utente attribuisce alla “ macchina” vari tratti umani fino ad arrivare ad una vera e propria “ empatia”, tanto che alcuni “umani” utilizzavano il software “Eliza” in quanto trovavano beneficio nei momenti di stress.
3) Tuttavia la relazione con il passare del tempo evidenzia alcuni limiti: favorisce affezione e genera senso di comprensione, ma suscita delusione o diffidenza se l’AI non è all’altezza delle aspettative.
4) Il prolungarsi della relazione consolida le reazioni preminenti e può diminuire il senso critico e la creatività dell’utente con effetti negativi a lungo termine già documentati ( deskilling)
5) E’ possibile approfondire la relazione umani-IA e sulla base dei dati raccolti (seppur parziali) fornire indicazioni di massima che valorizzino gli aspetti positivi della IA minimizzandone quelli negativi….

La nostra relazione con IA da un punto di vista socio-psicologico….

Dal punto di vista socio-psicologico, il legame con gli oggetti spesso si forma sin dall’infanzia. Molti bambini sviluppano un attaccamento intenso verso un oggetto transizionale, tipicamente una coperta o un peluche (la “coperta di Linus”), che funge da primo “compagno simbolico” separato dalla madre. Donald Winnicott descrisse l’oggetto transizionale come un oggetto scelto dal bambino, percepito come distinto da sé ma investito affettivamente e simbolicamente e rappresentativo della relazione con la figura materna, con cui il piccolo crea un legame speciale. Questo oggetto conforta il bambino nelle separazioni e nei momenti di stress, aiutandolo a sentirsi sicuro.. Questo comportamento infantile suggerisce una forma di “pensiero essenzialista”: come se l’oggetto possedesse un’essenza unica che lo rende non replicabile, poiché impregnato della storia e delle emozioni del bambino.
Crescendo, il rapporto con gli oggetti si evolve ma non perde importanza. Durante l’adolescenza, i beni materiali spesso diventano “stampelle” dell’identità: i ragazzi iniziano a usare vestiti, accessori, dispositivi tecnologici e altri oggetti per esprimere se stessi e sentirsi parte di un gruppo; gli oggetti e i possedimenti cominciano ad agire come un sostegno per il Sé: poster, libri, gadget e capi d’abbigliamento scelti non solo per la loro utilità ma per il messaggio identitario che trasmettono. L’oggetto diventa dunque uno specchio della personalità in formazione. Anche in età adulta, molti individui conservano oggetti che incarnano parti del proprio Sé – si pensi ad esempio all’automobile a cui si è affezionati, ai collezionabili che rispecchiano passioni personali, o agli strumenti del mestiere che definiscono il proprio ruolo professionale.

Un aspetto fondamentale della psicologia delle relazioni con gli oggetti riguarda la memoria personale. Gli oggetti fungono spesso da custodi di ricordi: una vecchia fotografia, un cimelio di famiglia, un regalo ricevuto da una persona cara – tutti questi oggetti possono evocare emozioni profonde e mantenere vivo il passato nella nostra mente. L’individuo separato improvvisamente dagli oggetti che ama può sentirsi smarrito, quasi frammentato, perché “le cose e i luoghi garantiscono la propria integrità” e continuità dell’identità. In altre parole, alcuni oggetti ancorano il senso di sé, legandolo alle esperienze vissute. Ritrovare, ad esempio, un album di foto di famiglia o un giocattolo d’infanzia in un momento di crisi significa riappropriarsi di un pezzo della propria storia, un simbolo di continuità in grado di offrire conforto psicologico.

Dal punto di vista cognitivo, la relazione con gli oggetti coinvolge anche processi di antropomorfizzazione e di estensione della mente. L’essere umano ha la tendenza naturale ad attribuire qualità umane agli oggetti inanimati, soprattutto a quelli verso cui prova affetto o che svolgono un ruolo importante. Questo fenomeno, è noto come antropomorfismo, ed è tanto comune da essere considerato un sottoprodotto dell’intelligenza sociale umana: è dunque una peculiarità umana e non patologica quella di dare un nome proprio all’automobile, al computer, allo strumento musicale o perfino alle piante di casa: oggetti con cui interagiamo regolarmente e che percepiamo quasi come estensioni della nostra identità. Queste proiezioni mentali sugli oggetti non sono segno di follia, bensì di creatività cognitiva e legame emotivo. Storicamente, l’usanza di battezzare gli oggetti ha radici antiche: nei poemi omerici gli eroi davano un nome alle proprie armi (celebre il caso della spada Excalibur di Re Artù, nella leggenda arturiana), e nel Medioevo i cavalieri consideravano la spada o la lancia come compagne fidate, al punto da attribuire loro nomi e virtù quasi umane. Analogamente, i marinai hanno per secoli dato nomi femminili alle loro navi, trattandole come esseri da rispettare e amare – un esempio tipico è la tradizione di dipingere occhi e bocca sulla prua delle imbarcazioni, per “umanizzarle” e propiziarne la buona sorte in mare. In sintesi, l’antropomorfismo ci porta a colmare il divario tra soggetto e oggetto: vediamo volti dove non ci sono (il fenomeno della pareidolia), parliamo agli oggetti amati e attribuiamo loro intenzioni, soprattutto quando ci sono incertezze o desiderio di compagnia.

Un ulteriore livello di relazione cognitiva con l’oggetto è quello dell’estensione della mente. Secondo la teoria della Extended Mind (mente estesa) proposta dai filosofi Andy Clark e David Chalmers, strumenti e supporti esterni possono diventare parte integrante dei processi cognitivi di una persona. La distinzione tra “dentro” e “fuori” la mente si sfuma, poiché l’oggetto esterno (il quaderno) svolge esattamente la stessa funzione di un processo interno (il ricordare). Oggi viviamo questa situazione quotidianamente con gli smartphone e altri dispositivi digitali: agende elettroniche, rubrica telefonica, mappe GPS e archivi fotografici digitali sono diventati il nostro magazzino di ricordi e conoscenze. Molte persone non memorizzano più numeri di telefono o appuntamenti, delegando tali informazioni al telefono. Di conseguenza, è come se una parte della nostra mente risiedesse nei circuiti elettronici del device.
Gli strumenti tecnologici divengono protesi cognitive, estensioni attraverso cui pensiamo e prendiamo decisioni: fin dalla preistoria la specie umana ha saputo integrare elementi dell’ambiente nei propri processi mentali, dapprima con l’invenzione di scrittura e strumenti di calcolo, fino alle moderne interfacce digitali. La capacità di “fondere” mente e oggetto è probabilmente uno dei fattori che ha permesso all’umanità un’evoluzione culturale così rapida rispetto ad altre specie. Va notato però che questa dipendenza cognitiva dagli oggetti può avere anche risvolti problematici: ad esempio, quando la protesi tecnologica viene a mancare, possiamo sperimentare un senso di vuoto o ansia. In tempi recenti si parla di nomofobia (dall’inglese no-mobile-phone phobia), la paura incontrollata di rimanere senza smartphone o senza connessione. Chi ne soffre prova un forte stato d’ansia e panico se il telefono non è a portata di mano, temendo di non essere rintracciabile o di “perdersi qualcosa” online. Questo disturbo evidenzia quanto indispensabile e intimo sia divenuto per molti il rapporto con l’oggetto tecnologico personale: lo smartphone non è più un semplice gadget, ma quasi un amico fidato o un guscio mentale che ci collega al mondo.

RIFLESSIONE FINALE: La IA è un oggetto ma è anche una funzione ed un importante straordinario supporto ad innumerevoli attività umane. La relazione che noi umani instauriamo con "lei" è molto complessa ma ha una catatteristica unica ed irripetibile: suscita in noi sentimenti ed emozioni che possono modificarci, mentre "lei" -finchè c'è la corrente- procede imperturbabile per la propria strada...
Pensiamoci ogni tanto.....





Riccardo De Gobbi e Giampaolo Collecchia




Per approfondimenti sulle origini della Medicina Digitale si consiglia:

Collecchia G. De Gobbi R.: Intelligenza Artificiale e Medicina Digitale. Una guida critica. Il Pensiero Scientifico Ed. Roma 2020
http://pensiero.it/catalogo/libri/pubblico/intelligenza-artificiale-e-medicina-digitale





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